la copertina della rivista Communio in cui apparve questo articolo

La “implicita filosofia” di de Lubac

Implicazioni filosofiche del pensiero di un grande teologo

Pubblicato su Communio, n. 126, nov-dic 1992, pp. 51-63, col titolo “Implicazioni filosofiche nell’opera di de Lubac”.


Abbiamo già osservato più volte, come del resto non ci risulta sia negato da alcuno, che quello di de Lubac, per sua stessa inequivocabile affermazione non è un sistema sistema filosofico-teologico articolato «tecnicamente», e perciò fortemente «settoriale», ma vuole piuttosto essere non tanto una sintesi al di sopra delle parti (cosa evidentemente impossibile), ma una ”riscoperta di un dato tradizionale, in cui possano nuovamente parlare all’umanità di oggi i grandi maestri della Tradizione cristiana, i Padri in primo luogo.

È stato recentemente sostenuto [1] che de Lubac ha recepito molto della filosofia di Blondel. Non si può negare che un influsso non trascurabile, del resto esplicitamente ammesso dallo stesso de Lubac, ci sia stato; ma quel che è ancora più certo è che il nostro autore ha sempre mantenuto una sovrana libertà di spirito, che non lo lascia ingabbiare in una scuola di pensiero predefinita, e che gli permette invece di valorizzare al massimo un ampio, seppur non confuso, ventaglio di posizioni filosofiche. In prima approssimazione potremmo definire platonico-agostiniano il retroterra filosofico privilegiato di de Lubac: una filosofia come quella gli permette di pensare coerentemente ciò che più gli sta a cuore, il rapporto costitutivo dell’uomo con l'Assoluto vivente. Tuttavia occorre aggiungere che questa preferenza non va intesa in senso esclusivo, né meramente ripetitivo: non esclude, ma tende ad integrare l'apporto aristotelico-tomistico (come abbiamo già visto a livello teologico), e si rapporta dialogicamente alle istanze moderne, ben presenti a filosofi da lui apprezzati, quali Blondel e Marcel. p. 51 Dove vediamo affiorare con più nettezza la «implicita filosofia» di de Lubac, è in Pic de la Mirandole, oltre che, più frammentariamente, nelle opere su Teilhard de Chardin e in Proudbon et le Christianisme[2]. Qui affronteremo tematicamente il problema della struttura metafisica del creato, e quello dell’antropologia.

1. La «implicita metafisica» di de Lubac

Il fulcro di quella che possiamo chiamare, con tutti i limiti del caso, metafisica delubachiana è il concetto di sintesi antinomica, che comanda una concezione dell’essere come unità complessa, dialettica.

La metafisica aristotelica, da un lato, concepisce l’essere, o meglio l’ente, come unità «statica», «forte», in sé «tranquillamente» consistente, per cui ogni ente, in particolare ogni sostanza, è ben saldo nel proprio essere, gode di una stabilità interna, circoscritta nelle robuste mura della propria essenza specifica.Il principio di identità, così come lo formula lo Stagirita,esprime questa fiducia nella «forte» unità intrinseca dell’ente finito. D'altro lato, proprio per la «forza» strutturale dell’ente,il tipo di unità tra gli enti risulta piuttosto blando: predomina insomma una tendenza analitica e disgiuntiva sull’unitarietà sintetica nell’unico essere.

De Lubac si inserisce piuttosto nel solco di quella impostazione metafisica che parte in qualche modo da Eraclito, per proseguire con Platone (la dialettica delle idee), Massimo il Confessore (il reale come polarità sintetizzabili), Cusano (la ‘coincidentia oppositorum’), Pico della Mirandola (la “concors discordia”),tale indirizzo ha uno sviluppo nella dialettica hegeliana e marxista, che certo non è accettato da de Lubac, ma assume anche una piega interessante in Proudhon (espressamente valorizzato dal nostro autore per il suo «equilibrio» delle antinomie), Przywara, e Guardini (il concetto di tensione polare). Questo orientamento metafisico vede da un lato l’ente come intrinsecamente dialettico, uno, ma di una unità non statica, non semplice, increspato com’è da una costitutiva tensione ontica (che pure non ne intacca l’intima non-contraddittorietà, come accade invece per Hegel e Marx); d’altro lato questa intrinseca non-definitività dell’ente specifico permette di vederlo non tanto ritagliato nella sua circoscritta separatezza, ma connesso strutturalmente al tutto,immerso nella totalità,non definibile che dentro l’intero. p. 52Bisogna comunque aggiungere che proprio il fatto di intendere la dialettica come non-contraddittoria, rende l'orientamento metafisico delubachiano diverso dall’aristotelismo, ma non opposto e incompatibile. De Lubac stesso, in Pic de la Mirandole, apprezza la sintesi tra platonismo e metafisica aristotelica tentata, a suo giudizio efficacemente dal conte della Mirandola, in ciò convergente con Nicolò Cusano [3].

Ma vediamo più in dettaglio come de Lubac intenda questa concezione, e per far ciò non possiamo che valerci di quanto egli dice a proposito di alcuni autori. Anzitutto Pico: de Lubac vede in lui una valida [4] metafisica di tipo dialettico (non certo in senso hegeliano, peraltro).Secondo il nostro autore Pico riteneva che «la discordia» sia «inizialmente ovunque» (Pic p. 321): gli enti infatti non riposano in una unità statica,immediata, ma esiste, in loro e tra loro, una strutturale tensione dialettica. Tuttavia non è il contrasto ad avere l’ultima parola:la discordia «non è tuttavia mai pura discordia. Essa porta in sé già le premesse della concordia» (ibidem). Essa cioè contiene il rinvio alla totalità. Non si tratta insomma che di un momento rivelativo, anelante ad una superiore sinteticità unificante. È ciò che Pico vede, aggiunge de Lubac, sotto il velame simbolico del rapporto tra Marte, dio della guerra, e Venere, dea dell’amore: la suprema sintesi dell'amore non può prescindere dalla concreta realtà del contrasto. Pico perciò ha assimilato la lezione di Eraclito e di Empedocle, filosofi che hanno evidenziato l'aspetto di lotta e di p. 53conflitto che struttura il reale (Ibidem). Nelle cose e tra le cose regna infatti, è lo stesso Pico a dirlo, «un’amica inimicizia e una concorde discordia» (Commento, 1.2, c.9, 495/6; cit, in Pic, 322).

Più organicamente troviamo conferma e spiegazione di quanto sosteniamo in Proudhonet le Christianisme, nel capitolo dedicato alla «dialettica di Proudhon». Pur non potendolo condividere così ampiamente e profondamente come Pico, de Lubac lascia chiaramente trasparire per il pensiero del grande socialista, anticlericale ma assetato di una giustizia vera, assoluta, una profonda simpatia. Si tratta infatti di un pensiero fondamentalmente onesto, che aspira senza saperlo a quel Dio, che pur dice di non riconoscere [5], ma che non può non inquietarlo: «je pens à Dieu depuis que j'existe»,affermava Proudhon. In realtà la sua «adorazione della giustizia» lo rende oggettivamente religioso,dato che l’unico fondamento adeguato ad essa è la Trascendenza. Nel capitolo suddetto in particolare, de Lubac confronta il pensiero filosofico di Proudhon con quello di Marx, Kant ed Hegel, evidenziando la sua preferenza per il pensatore di Besançon. La metafisica hegeliano-marxiana infatti ha la pretesa, intrinsecamente gnostico-diabolica [6], di porsi nella stessa prospettiva divina e di investire il finito della stessa assolutezza della Trascendenza, per cui tutto ciò che l’Umanità compie, nella sua necessaria dialettica, ha il crisma e il sigillo dell’assoluto: tutto ciò che è reale, storico, è razionale, è giusto,anche le più immonde nefandezze e le più raccapriccianti atrocità. Laddove Proudhon,con incomparabile onestà intellettuale, riconosce che il cammino storico dell'Umanità non è irresistibilmente orientato al meglio, non attua inesorabilmente una Perfezione immanente, non è perciò criterio a sé stesso, e come tale ingiudicabile, ma è sottoposto alla continua realtà del tradimento della verità e della Giustizia, la quale giudica l’agire umano come qualcosa di non manipolabile. p. 54E il cardine della implicita «metafisica» proudhoniana è il concetto di equilibrio delle polarità antinomiche: la realtà è strutturata in modo antinomico, dialettico. Quella dialettica di antinomie, che per Kant era una legge del pensiero, per Proudhon è legge del reale (PCh, 156), e sostiene la sua versione del mondo: «Tutto cambia, tutto scorre (...). Di conseguenza tutto è connesso con tutto [tout se tient] e si concatena; di conseguenza ancora tutto è opposizione, bilanciamento, equilibrio nell'universo» (p.157, cit. da La philosophie du progrès). Per cui il contrasto, la guerra, sono per questo «nuovo Eraclito» costitutivi della storia e della vita, benché in senso diverso dal diabolico cinismo hegeliano-marxista. Proudhon infatti non pensa ad una «sintesi» che tolga la contraddizione tra il bene e il male, saldando presuntuosamente i conti della storia, in una vigliaccamente compiaciuta legittimazione dell’ingiustizia che avvolge «questo mondo di tenebre» (S. Paolo), non estrae dal suo cilindro la razionalità compiuta ed assoluta dell’umana vicenda storica. Molto più lealmente si attiene al dato reale, non sopprime lo spontaneo sentimento di ciò che è giusto e ingiusto, e non pretende di assolutizzare il relativo. Per lui la dialettica non opera, con la necessità inesorabilmente progressiva delle triadi tesi-antitesi-sintesi, l’autodeificazione dell'Umanità, ma consente mediante un possibile, progressivo perfezionamento dell'equilibrio tra le polarità antinomiche [7] una approssimazione alla Giustizia, che comunque trascende e giudica la storia e l’umano operare [8]. De Lubac,pur non nascondendosi le oscurità e le difficoltà interne di questa concezione, riducibili in ultima istanza alla mancata individuazione di un fondamento adeguato della giustizia, guarda con simpatia alla nozione proudhoniana di equilibrio antinomico, che riconosce essere interessante e stimolante. Una delle definizioni che egli ne dà ci riporta con singolare somiglianza al concetto «concors discordia», che abbiamo visto in Pico: una «pace nella permanenza dell’antagonismo» (PCh, p.166), una forma armonica, che riconcilia una materia complessa e «brulicante di contraddizioni». p. 55Il motivo poi per cui il nostro autore apprezza questo tipo di impostazione metafisica ci pare abbastanza evidente: da un lato, in quanto considera la tensione ontica intrinseca ad ogni ente, esso gli consente di fondare filosoficamente il suo concetto di mistero come paradosso, ossia come sintesi antinomica [9], e ben si vede come sia calzante porre una analogia tra la antinomicità del piano naturale, filosoficamente indagato, e quella del piano soprannaturale, teologico. D'altro lato, in quanto alla dialettica è strutturale la tensione all’intero, il non riposare nella parte, sapendola parte, quindi non compiuta, ma semplice frammento, simbolo, quell’indirizzo gli consente altresì di fondare quel concetto di cattolicità, che è un altro importante cardine del suo pensiero teologico. Questa dimensione «cattolica»,ben evidenziata da von Balthasar [10], porta il nostro autore a evitare prese di posizione,che si acquetino in troppo facili e scontate esclusioni,per cercare invece di cogliere e valorizzare il vero, ovunque si trovi [11].

2. La antropologia di de Lubac

2.a. — Anche a questo riguardo occorre precisare che de Lubac non ha propriamente elaborato una esplicita antropologia filosofica, benché sia p. 56comunque possibile intravederne alcune linee portanti. Egli si mostra anzitutto avverso ad una concezione di uomo che ne definisca la natura nei confini di una pura finitezza: per lui la creatura razionale è strutturalmente proiettata verso l’infinito. Dunque una definizione come quella aristotelica, di zoon loghikòn non lo può soddisfare, dato che essa circoscrive l’uomo nell’immediatezza del genere prossimo, richiudendolo in una recisa e parziale settorialità. Come in metafisica egli preferisce rapportare ogni cosa al Tutto, mostrando piuttosto l'insufficienza del finito che la sua compiutezza definita, così in antropologia de Lubac mira a rapportare intrinsecamente il soggetto umano alla totalità (creata e increata). Non definito in sé stesso dunque, ma vitalmente relazionato (verso il basso) all'intero creato, come microcosmo, e (verso l’alto) al Tutto divino, come immagine di Dio. I testi, in cui troviamo esposti questi elementi sono il già citato Pic de la Mirandole, e inoltre La pensèe religieuse du Père Teilhard de Chardin [12], Le drame de l’humanisme athée [13], per non citare che i più importanti.

L’uomo come microcosmo, anzitutto. De Lubac tematizza questa concezione soprattutto in Pic [14], notando come non sia stato il conte della Mirandola il primo a pensare all’uomo in tali termini. Vi è invece tutta una lunga e venerabile tradizione patristica e medioevale che vede l’uomo come una sintesi, un concentrato del cosmo intero, definibile perciò solo in rapporto alla complessa trama di relazioni che costituiscono l'universo: «nodo della creazione, l’uomo è votato all’universalità», osserva de Lubac (Pic, 174). Infatti, come diceva Pico «l’uomo ha qualcosa di ogni creatura: egli ha l’essere in comune con le pietre, la vita in comune con gli alberi, il sentire in comune con gli animali, l’intelligenza in comune con gli angeli»;in un certo senso perciò egli «è ogni creatura» (Heptaplus, 302/4, in Pic,173). Il che non va inteso,come spiega il nostro autore, nel senso naturalistico di una risoluzione dell’uomo nel cosmo materiale [15], ma anzi nel senso che la natura umana, ben p. 57lungi dall’essere chiusa e ripiegata in sé, ente tra gli enti finiti, abbraccia,nella sua tensione alla totalità infinita, l’intero mondo naturale. Analogo concetto è desumibile dal suo studio su un altro autore, che de Lubac spiega e difende, il suo confratello Teilhard de Chardin.Per lo scienziato-teologo gesuita l’uomo, in quanto prodotto finale dell’evoluzione cosmico-biologica,racchiude nella dimensione corporea il meglio della stessa evoluzione e, quindi, dell’universo [16].

Se dunque, dal lato corporeo, l’uomo non è racchiudibile nell’angusto genere prossimo dell’animalità, d’altro lato, e parallelamente, la sua differenza specifica e ben più che pura razionalità: egli è imago Dei, desiderio dell’infinito, rapporto con l’ Assoluto [17]. È in tale ottica impensabile un’antropologia puramente naturale: l’uomo,creatura corporeo-spirituale, non ha una natura dello stesso tipo di quella degli enti infraspirituali, chiusa in sé stessa e orientata ad un fine semplicemente naturale. In ciò egli ritiene di essere in perfetto accordo col Dottore Angelico, che esclude che la «creatura rationalis» sia da considerarsi una «res naturalis»(MS, p. 163). Quest'ultima infatti è «magis coarctata et limitata», mentre la «natura rationalis» «habet maiorem amplitudinemet extensionem» (MS, p. 166,citaz.da 1%, q. 14, a. 1). L'essere imago Dei significa, quindi, avere una natura del tutto speciale, «aperta» e non circoscritta come quella degli enti naturali 18, dilatabile, tensione alla Totalità soprannaturale, alla partecipazione alla quale essa è destinata. Va subito detto però che questa dilatabilità della natura umana non può essere in alcun modo confusa con una arbitraria autoinventabilità di stampo sartiano [19], e neppure ci pare lecito qualche accostamento ad una antropologia fideistica, come quella di certo francescanesimo «estremista», o p. 58in qualche modo gioachimitica, come quella di certa teologia attuale volta ad una «sperimentazione» di nuove forme di umanità (ad esempio in campo affettivo),che finora sarebbero state bandite per un pregiudizio storico-relativo.La natura umana, per de Lubac, esiste eil cammino verso il suo pieno compimento soprannaturale segue una dinamica non manipolabile dal capriccio del volere umano, e che comunque non contraddice la sua vera essenza.

2.b. —Ciò chiarito si tratta di considerare quanto la sua (implicita) antropologia sia collocabile in una prospettiva spiritualistica. Come è già stato osservato infatti esiste un indubbio legame simpatetico e un certo debito concettuale, verso la tradizione, forte in Francia,dello spiritualismo da Maine de Biran a Bergson,a Blondel [20]. In verità esiste più di un punto convergenza tra l'impostazione filosofica spiritualista,che fa della soggettività piuttosto che dell’oggettività cosmico-mondana il punto centrale del proprio interesse, e fa leva su di essa per giungere a Dio, e la concezione delubachiana. In particolare la sua gnoseologia lo porta a privilegiare una presenza in qualche modo innata della conoscenza di Dio nel soggetto spirituale [21].

Non ci pare però che de Lubac si spinga ad una immedesimazione con lo spiritualismo in quanto filosofia tecnicamente compiuta, in quanto sistema chiuso ed esclusivo di altri apporti. Non è solo per amore di quieto vivere, crediamo, che egli proclama la non incompatibilità della sua concezione con quella aristotelica, tant'è che lo continua a dire anche nella opere della maturità, quando i rischi di emarginazione non venivano più tanto dalla p. 59«destra» neotomistica, ma semmai dal «progressismo» teologico, ostile all’ellenizzazione della fede.

La stessa affermazione del carattere innato della conoscenza di Dio non è rapportabile ad un innatismo in senso classico, ad una scelta di campo di tipo ontologista, come spiegheremo meglio più avanti. La preoccupazione di de Lubac non è infatti di tipo«tecnico»: ciò che gli importa, datala sua impostazione generale che lo porta a voler essere il più possibile «cattolico», trasparenza della Tradizione in quanto essa ha di più saldamente comune (sia pur senza eclettismi),rendendo alieno da una riplasmazione creativa «forte» (a differenza, per intenderci, da von Balthasar), ciò che più gli importa, dicevamo, è fondare un’antropologia che proietti l’uomo verso il suo compimento soprannaturale,evitando di racchiuderlo in una immanenza autosufficiente. Nella misura, e solo nella misura in cui elementi della corrente spiritualista possono concorrere a tale scopo, essi potranno, ma sempre con sovrana libertà di giudizio, essere utilizzati [22].

È in tale ottica che possiamo considerare il tema della tripartizione dell'essere umano in tre livelli. Egli si rifa al testo paolino(Ts 5, 23), in cui si parla di corpo, anima e spirito,per ripercorrere poi un serie di autori tradizionali, da s. Ireneo, a Origene, passando in qualche modo anche per Agostino, per giungere ai mistici cistercensi (s. Bernardo, Guglielmo di s. Thierry, Isacco della Stella) e a quelli renano-fiamminghi (Eckhart, Taulero, Ruysbroeck),a Erasmo, s.Francesco di Sales; in età contemporanea egli ritiene di ritrovare tale tripartizione in Kierkegaard, Bulgakov, Bernanos e Claudel[23]. De Lubac ritiene che l’origine di questa concezione vada ricercata non in ambito greco, ma biblico, e comunque essa è accostabile ad Aristotele non meno che a Platone [24]. Già in questa duplice precisazione possiamo cogliere il suo intento non angustamente «tecnico»: non è tanto una categoria filosofica nettamente stagliata (di tipo platonico-spiritualista) che gli interessa, quanto un presupposto concettuale ad p. 60una tesi teologica, ciò che lo porta a sottolineare l’origine biblica della tripartizione. Ulteriore prova di ciò si vede nella esitazione che egli dimostra sul problema della portata ontologica della suddetta tricotomia paolina: lo spirito (pneuma) va inteso come un livello reale, ontico, già distinto nella natura umana dell’anima, ovvero va inteso in senso pratico-esitenziale, come il luogo più intimo dell’anima, abitato per grazia dello Spirito? È nella Scrittura stessa, osserva de Lubac,che si dà oscillazione tra i sue significati di spirito [25], e ciò che interessa al nostro autore non è una soluzione univoca del problema: piuttosto il significato di questa sua riscoperta dello «spirito» è di evidenziare quella dimensione, quel luogo, in cui l’uomo è più direttamente proiettato verso il suo Destino concreto, il Mistero del Dio vivo. Se infatti l’uomo fosse composto solo di corporeità e anima razionale, alla sua realizzazione potrebbero bastare un'intelligenza e una moralità puramente naturali, risolvibili appunto nel livello «anima» [26]. Mentre è lo spirito, intimo centro che sfugge alle maglie della razionalità concettuale,la sede di quella profonda aspirazione all’infinito (che altrove de Lubac chiama desiderium videndi Deum), che lo rende inappagato della misura naturale, e strutturalmente proteso verso la Pienezza soprannaturale.

2.c. - Un ultimo accenno è doveroso: quello sul tema della libertà, che de Lubac sottolinea con forza. Questa sottolineatura segna un distacco dall’impianto neoscolastico, più propenso ad evidenziare la dimensione intellettuale, e il carattere «tranquillo» (perché poggiante saldamente sulla consistenza del livello naturale, razionalmente possedibile) dell’esistenza; mentre il nostro autore percepisce maggiormente la dimensione drammatico-concreta e pone nella scelta del centro affettivo la questione decisiva del vivere.

Avendo già affrontato altrove [27] questo tema, ci limitiamo a ricordare p. 61come non sia casuale l’interesse per un filosofo quale Pico della Mirandola, che della libertà umana fu deciso ed entusiasta (in spirito perfettamente ortodosso, dimostra de Lubac) assertore; così come non lo era il fatto che una parte del celebre Surnaturel (ripresa anche nel ’65) [28] fosse dedicata a tale argomento, e fosse volta a dimostrare l’inevitabilità del libero arbitrio nella creatura spirituale. Ancora, l’importanza della libertà, la sua inestricabile immanenza nell’umano, appare dal discorso sul gioachimismo, che invece di fatto nega la responsabilità personale.

Inutile dire che l'accento sul valore della libertà non ha nulla a che spartire con un esistenzialismo di tipo sartriano (che egli critica con nettezza in Pico) [29]. Anzi esso è connesso con la riproposizione, «scomoda» nel panorama teologico attuale, di un atteggiamento di radicale umiltà e non-autosufficienza del soggetto umano, ben diversa dalla orgogliosa autocreatività dell’immanentismo contemporaneo, talora percepito anche da un certo tipo di omiletica. Per il nostro teologo la libertà di scelta non è creatrice di valori, né può giocare con il proprio potere, sotto pena di rovinare l'umano; essa invece è responsabilità, tanto stringente e drammatica, in quanto l’uomo si trova in uno stato di bisogno, per l’incapacità ad attuarsi da sé, e per l'immersione nell'oscurità del peccato. «Il male è inerente alla condizione umana» e «Gesù non ha nascosto il lato austero del suo messaggio» (SL, 77); non bisogna credere, come tendeva, e tende, a fare certa teologia, che il progresso storico segni una diminuzione del male morale, inaugurando un’era di umanità «adulta» in senso illuministico, non bisognosa di salvezza: «il De profundis e il Miserere (...) non sono meno attuali ora di allora, e non lo saranno meno in avvenire»[30]. Dimenticare la ferita, che ci apre alla misericordia di Dio, in Cristo, significa, lo ripetiamo, distruggere l’umano: l’uomo che si crede capace di realizzarsi con le sole sue forze, «non dovrebbero far altro che seguire il delizioso pendio del suo intimo impulso»; ma in questo modo, «chiudendo i suoi occhi troppo delicati», egli non vede più e non condanna p. 62«gli attentati perpetrati contro il gregge umano di oggi» (SL, 84/5), contro la concreta umanità che è ben diversa dall'immagine superficialmente ottimistica dell’antropocentrismo dominante.

Non vi è qui spazio per trattare della «implicita gnoseologia» di de Lubac, a riguardo della quale ci sentiamo di dire almeno che essa non può essere letta in una prospettiva relativistica e storicistica: il riferimento essenziale alla contingenza storica è in funzione del rinvenimento, nella storia, delle manifestazioni dell’Eterno. La storia infatti non è un «luogo teologico» in quanto tale (perché non lo è il «mondo», attraversato com'è dal male): essa però è il luogo in cui Dio ha deciso di rivelarsi. Perciò la razionalità non può orgogliosamente arroccarsi in una sistematicità astratta, se non vuol essere infeconda e vuota: il suo pieno valore è nel nutrirsi della ricchezza della Tradizione, veicolata nella storia.

Questo cenno è davvero appena un abbozzo, un titolo, più che un argomento; lo vogliamo lo stesso aggiungere, in tempi in cui il padre de Lubac viene fatto oggetto di attacchi nemmeno tanto velati, che rivelano un misconoscimento del suo vero pensiero (e una ignoranza della sua opera), tanto più disdicevoli dopo l'autorevole stima manifestata nei suoi confronti dal Papa, che lo ha elevato alla dignità cardinalizia.

Nel complesso possiamo sperare di aver mostrato come la «implicita filosofia» di de Lubac sia in stretta unità con il suo impianto fondamentale, quello di ripensare l’uomo in termini di non dualistico rapporto col Mistero di Dio: non esistono un umanità o una realtà «puramente naturali», autosufficienti e separate dal loro Centro soprannaturale,che è anche il loro Senso e Destino.

Francesco Bertoldi (1958) è laureato in filosofia presso l’Università Cattolica di Milano con una tesi sulla modernità in Henri de Lubac.Insegna filosofia nelle scuole superiori.

p. 63

note


[1] A.Russo, Henri de Lubac: Teologia e dogma nella storia. L’influsso di Blondel, ed.Studium, Roma 1990.

[2] Proudbon et le Christianisme, ed. du Seuil, Paris 1945, tr. it. Jaca Book, Milano 1985 (PCh). Pic de la Mirandole, ed. Aubier-Montaigne, Paris 1974 tr. it. Jaca Book Milano 1977 (Pic).

[3] Pic, p.368. L’unità tra il vero Aristotele e il vero Platone viene tematizzata da Pico nel De ente et uno, che de Lubac valorizza particolarmente. Contro un modo unilaterale di intendere l’aristotelismo, accentuando cioè il primato del concetto di ente, fino al punto da sottomettervi Dio stesso, ridotto quasi ad uno dei tanti enti, ma anche contro un modo unilaterale di intendere il platonismo, esasperando il concetto di unità e di bene, come se fossero da considerare al di sopra dell'essere, e scavando così tra l’Uno/bene trascendente e il creato un solco non più colmabile, Pico afferma una sua originale e sintetica posizione. Per cui da un lato (contro l'eccesso aristotelico) egli ribadisce che Dio è al di sopra dell'essere intenso come ens, non è infatti uno dei molti enti (p. 298/9); d'altro lato Dio è, è esse: la sua unità sovreminente non può stare al di sopra dell'essere, pena di non poterlo più pensare affatto e di porlo così ai confini del nulla, in una lontananza tale da renderlo del tutto inincidente sul finito.

[4] Pic,290sgg, e pagg. 306/8. «Sotto la sua apparenza astratta il pensiero di Pico era, come si dice oggi,un pensiero impegnato (...)l'intenzione che presiede alla [sua] opera(.,,) segna una tappa sulla via della sintesi che deve attuare la riconciliazione universale degli spiriti» (p.306).

[5] Senza peraltro negarlo in modo univoco: «L’ateo è colui che nega dogmaticamente l’esistenza di Dio. Ora, io credo e dico che non possiamo legittimamente né negare né affermare niente riguardo l'assoluto». (cit, da de Lubac, PCh, p. 283). Proudhon se la prendeva, di conseguenza conl’ateismo volgare di chi rimuove il problema religioso, dimenticandosi, con Dio, anche di sé, ed evitando di pensare: si tratta spesso di una posizione motivata da immoralità (p.284),come nel caso del crasso ateismo del borghese, ottusamente soddisfatto, e avido solo di denaro (ibidem).

[6] Si veda quanto de Lubac dice di questi filosofi ne La posterité spirituelle de Joachim de Flore e ne Le drame de l’humanisme athée: Hegel viene nettamente respinto nella sua concezione gioachimiticamente fagocitante lo specifico cristiano(cfr GdF2, p. 430/46); e anche Marx viene visto in tutta la sua portata totalizzante di radicale incompatibilità (“radicalmente anticristiano») con la totalità cristiana(cfr GdF2,p, 396 sgg., e Dua, p.26 sgg.).

[7] Esempi di polarità antinomiche, a livello sociale, sono monopolio e concorrenza, o socialità e proprietà privata, attività individuale e attività sociale.

[8] «Ho messo al di sopra della libertà la Giustizia, che giudica, regola e distribuisce. La libertà è la forza della collettività sovrana,la giustizia è la sua legge» (PCh, p. 171, cit.da una lettera a Langlais, 30/12/1861). Il che significa che non tutto ciò che l'uomo compie è (come in Hegel) momento necessario all’attuarsi del Disegno infallibilmente positivo che si snoda nella storia: l’uomo e il suo agire non sono sempre e comunque giustificati, non essendo ultimamente regola a sé stessi, quali esplicazioni e manifestazioni di un divino immanente, sono anzi giudicati dalla trascendente giustizia. Esplicita del resto è la critica di Proudhon ad Hegel, la cui costruzione triadica gli appare un «capriccio», non fondato sulla realtà,e il cui «intero sistema sarebbe da rifare» (PCh, p. 164).

[9] Pur ritenendo acquisito alla maggior parte dei nostri lettori tale concetto,non sarà forse inutile spiegare che per de Lubac uno dei caratteri della verità cattolica è quello di comporre in unità aspetti, polarità apparentemente contrastanti, come giustizia e misericordia, universalità e particolarità, umanità e divinità, Unità e Trinità,inquietudine e pace, libertà e grazia. Il mistero è essenzialmente tale sintesi di polarità apparentemente contraddittorie, è sintesi antinomica, cioè, ancora, paradosso. Tra l’altro il concetto di sintesi antinomica si attaglia, pur senza giustificare luteranamente il male, a quella considerazione concreta del reale che è tipica di de Lubac,secondo cui non si può credere che Dio sia stato «spiazzato» dal peccato originale: fin dal primo istante della creazione, Egli ha progettato il reale in vista del concreto disegno salvifico, il cui culmine è la Croce/Resurrezione di Cristo, e in cui perciò la «guerra» era già stata preventivata.

[10] Henri de Lubac. Sein organisches Lebenswerk, Johannes Verlag, Einsiedeln 1976 (Tr. it. Il padre Henri de Lubac, Jaca Book, Milano 1978). Inparticolare pp. 39 ss.

[11] Un vero come lo concepisce de Lubac, non è se non nella totalità, nella pienezza cattolica. Ciò lo ha portato a cercare il positivo presente anche in un Nietzsche, in un Proudhon o in altri grandi sconfitti (Origene, Teilhard). Non ci si può viceversa accontentare di un analitica adequatio ad una verità settoriale,che si cinge di mura invalicabili. Il razionalismo teologico,da lui combattuto, e fondatesi piuttosto su una metafisica dell’essere statico e analiticamente fissato in essenze ben stagliate e dalla forte unità interna, tendeva appunto a una condanna senza appello di quanto apparentemente estraneo.

[12] La pensée religieuse du Père Teilbard de Chardin, Aubier, Paris 1962, tr. it. Jaca Book, Milano 1983.

[13] Le drame de l'humanisme athée, ed. Spes, Paris 1944, tr. it. Morcelliana, Brescia 1949 (Dua) e Jaca Book, Milano 1992.

[14] II parte, cap. 2°, Piccolo mondo e grande mondo (p. 167ss.). Tra i sostenitori dell'idea di uomo come microcosmo de Lubac ricorda Clemente Alessandrino, s.Gregorio Nazianzeno, s.Ambrogio, s. Agostino, Isidoro di Siviglia, Rabano Mauro, Scoto Eriugena, s. Pier Damiani, Ugodi s. Vittore, ma anche lostesso s. Tommaso (Lq: 91, a. 1.:«homo dicitur minor mundus»), s. Bonaventura, s. Ildegardadi Bingen, e poi Cusano (Pic 167/9,172/4).

[15] Pic, 175/7.

[16] TdC, cap. 8°. L’antropogenesi è il senso teleologico della cosmogenesi e della biogenesi, cioè della progressiva strutturazione ottimale del cosmo e delle specie viventi: tutto converge verso l’uomo, che in sé sintetizza l’intero cosmo naturale.

[17] Su questo tema de Lubac torna insistentemente, da Le drame de l’humanisme athéè, cit. a Le mystère du surnaturel, (ed. Aubier, Paris 1965, tr. it. Jaca Book, Milano 1979 [MSI]), fino a Spirito e libertà (Jaca Book, Milano 1979) [SL], oltre che nel già citato Pic (p. 170sgg).

[18] De Lubac nota come il primo segno di questa somiglianza con Dio, che ci eleva al di sopra dei limiti della bruta naturalità è la conoscenza: l’anima umana, come diceva Aristotele e la Scolastica, diviene «in qualche modo tutto».

[19] «Ciò non vuol dire affatto (...) che l’essere spirituale sia privo di ‘natura’ o di ‘essenza’, come molti dicono troppo facilmente oggi. Ciò non vuol dire neanche che la sua natura sia meno fortemente strutturata di quella degli altri esseri, il cui orizzonte è tutto dentro il cosmo. Molto semplicemente questa ‘natura’ è altra, ed è diversamente strutturata» MS, p. 175.

[20] È merito del Russo aver evidenziato questo legame, che fa dire a de Lubac che Maine de Biran «c'est notre plus grand métaphysicien dépuisMelebranche» (in Une édition de Maine de Biran,in Quodlibeta, pro-manuscripto inedito,t. 16, 1921/2, p.16, cit. nel testo del Russo, p. 133). Ci scusiamo con i nostri lettori di formazione filosofica per aver messo sotto la stessa etichetta pensatori come Blondel e Bergson, ma ciò pare del tutto lecito in questo contesto, dato che i due hanno in comune con lo spiritualismo strictu sensu il privilegio della soggettività (spirituale), come via dell’Assoluto che può prescindere da un discorso sull’oggettività cosmica (intraspirituale).

[21] Secondo de Lubac l’idea di Dio permea ed orienta, pur misteriosamente, e non oggettivabilmente,emanando dal punto più intimo e centrale del nostro spirito, tutta la nostra conoscenza: Dio è sempre, nel più intimo dello spirito,la ‘luce illuminante’ della nostra ‘luce illuminata’ (Sur les chemzins de Dieu, ed. Aubier-Montaigne,Paris 1956, tr. it. Sulle vie di Dio, ed.Paoline, Alba 1976, p. 19). «Dio- sostiene ancora il teologo di Cambrai - è la realtà che domina, avvolge e misura il nostro pensiero» (ivi, p. 59).

[22] Cfr. MS p, 86: «Della dottrina d'ispirazione platonica o cartesiana, che fa del corpo e dello spirito due sostanze separate, o della dottrina d’ispirazione aristotelica e tomista,che vede nell'uomo un essere sostanzialmente uno, non è la prima che assicura meglio il loro giusto posto ai valori corporali e resiste meglio alla spinta dei falsi spiritualismi, in conformità con la Rivelazione. Incontestabilmente è la seconda.»

[23] In Mistica e mistero cristiano, Jaca Book, Milano 1979 (MM), pagg. 59 sgg.

[24] MM, p. 64/6. Ad essere vicino all’idea di spirito, distinto dell’anima,e a questa superiore, sarebbe la concezione aristotelica di intelletto agente, principio divino della conoscenza intellettiva, e superiore all’intelletto passivo. Anche se il nostro autore aggiunge subito che «il parallelismo sarebbe inadeguato» (p. 65).

[25] In S.Paolo (in particolare 1 Cor 2,11) da un lato «lo spirito non è certamente lo Spirito Santo (...).Tuttavia non appare del tutto come una parte costitutiva dell’uomo in quanto tale, allo stesso titolo del corpo o dell'anima. (...) Ci sembra che nel suo pneuma paolino ci si la stessa ambiguità, nozionale perché reale, che c’è nell'’immagine’ divina o nel ‘soffio’ divino della creazione, quali li interpreterà la tradizione cristiana» (MM, p. 69/70).

[26] La non incompatibilità con l’antropologia tomistica si coglie anche nella calibratura che de Lubac fa del concetto di anima, che in altri testi intende come psyche, oggetto del sapere scientifico. Ad esempio in SL,p. 83: è inaccettabilmente riduttivo identificare «l'inconscio della psyche, sondato dalla psicologia, e la profondità del pneuma».

[27] “Appunti sul tema della libertà in de Lubac”, in Per la filosofia (ed. Massimo, Milano), n.9 (anno IV) gen/apr 87, pagg. 94/103.

[28] Nella versione italiana si tratta di Spirito e libertà, cit., in cui l’autore ripercorre l’intero arco della teologia occidentale in merito al problema della possibilità di una creatura essenzialmente impeccabile, il cui libero arbitrio quindi sarebbe stato inesorabilmente orientato ad operare solo il bene. E giunge a concludere che i grandi teologi (da s.Agostino a s. Tommaso) hanno scartato tale ipotesi,sia pure con diverse motivazioni.

[29] In particolare vedasi cap. 7° («Nè Sartre,nè Kafka», p.237 sgg.)

[30] SL, p. 84. È bene ricordare che de Lubac interpreta in questo senso anche il confratello Teilhard de Chardin, che non avrebbe mai dispensato l'umanità dal bisogno della grazia, e dal dramma della scelta.