Ragione e realtà nella filosofia medioevale

pubblicato in Libertà di educazione, n.5/6 (dic./gen, 96/97),pp. 19/22.

La filosofia medioevale è uno degli argomenti più elusi e bistrattati dai docenti di scuola superiore. E il motivo che spesso viene addotto è che si tratterebbe in realtà non di filosofia, ma di teologia, di teologia mascherata, solo superficialmente riverniciata di apparenze razionali.

1) ricorso alla luce di un fattore extrarazionale: solo nel medioevo?

Che nel Medioevo ci fosse un influsso della fede sulla riflessione filosofica è del resto fuori dubbio. Ma è altrettanto fuori discussione che in qualsiasi epoca una filosofia è prodotto di un soggetto filosofante, il cui orientamento ultimo sull'esistenza e sulla realtà totale precede in qualche modo, e condiziona, il suo lavoro analiticamente filosofico. Insomma nessuna filosofia è mai neutra, perché nessun filosofo è neutro. Nessuno fonda realmente la sua vita su una pura analisi razionale. Questo non significa che il lavoro della ragione sia una aggiunta accessoria, o una giustificazione posticcia di convinzioni già completamente acquisite altrove. Significa che di fatto tra il lavoro (puramente tecnico) dell'analisi filosofica e la globalità delle convinzioni sull'esistenza (alimentata da un continuo confronto con l'esperienza) esistono una circolarità e una complementarità insopprimibili.

Perciò potremmo rigirare al mittente l'obiezione di cui sopra: la vera insidia per la ragione non è nella possibilità aperta e dichiarata di influsso da parte di un fattore conoscitivo extrarazionale, ma in un influsso sotterraneo, subdolo, inconfessato, che non può, se è vero quanto abbiamo finora osservato, non esercitarsi su chiunque filosofi. Perché mai il fatto di non essere cristiani dovrebbe essere preso come garanzia indubitabile di un uso neutro e imparziale della ragione? Avendo rifiutato di confrontarsi con la fede soprannaturale il pensiero non sarà esentato da un confronto con altri fattori extrarazionali, semplicemente questi non saranno dichiarati 1.

2) essenziale apertura alla realtà del pensiero medioevale.

Abbiamo così sgombrato il terreno da un'obiezione che purtroppo ostruisce a molti la via di accesso al pensiero medioevale. Ma possiamo fare un passo ulteriore: mostrare come, nel medioevo filosofico, l'istanza razionale di apertura alla realtà non fosse affatto mortificata.La apertura della ragione nel pensiero filosofico medioevale emerge già dallo stesso clima culturale che permeava gli ambiti accademici, le scuole cattedrali e le università, clima che portava l'intellettuale a considerare anzitutto quanto altri avessero detto prima di lui. Il filosofo medioevale era interessato non a mostrare la propria abilità nell'escogitare una tesi particolarmente originale, magari il più possibile astrusa, ma a scoprire come fosse la realtà, ben contento di giovarsi dell'apporto altrui. La sua preoccupazione fondamentale non appare quella di affermare la propria soggettività, ma quella di aprirsi all'oggettività. Come abbiamo scritto in un nostro contributo sulla filosofia medioevale 2, "il lavoro culturale non vi era visto come una costruzione da ricominciare ogni volta da zero, ma come un'opera comune, come una costruzione collettiva, in cui sarebbe stolto distruggere o ignorare quanto gli altri hanno già fatto. Così viene costituendosi la prassi del lavoro filosofico-teologico come commento, che non vuol dire stupida ripetizione, ma una creatività innestata sull'asse portante di una certezza già sperimentata, affidabile almeno come prima ipotesi di lavoro. In particolare nella Scolastica si usa commentare il testo delle Sentenze di Pietro Lombardo, che è a sua volta una sintesi del pensiero patristico e altomedievale". In primo luogo dunque vi è una apertura della ragione al pensiero altrui, motivata dalla volontà di conoscere la realtà; e il pensiero altro da sé è principalmente la tradizione, nel cui alveo si colloca con sicurezza il pensatore medioevale, per poi, da lì, guardare senza paura qualsiasi pensiero. Questa apertura è esattamente agli antipodi di certo soggettivismo moderno, per il quale l'ideale è una "originalità" tanto più soddisfatta quanto più può porre il proprio copyright su una certa tesi, su una data idea. Si pensi a Cartesio, che privilegia quei contenuti mentali che si possono trarre "dal tesoro della propria mente", senza essere debitore ad alcunché di esterno, o si pensi anche all'accezione che assume in Kant il termine "puro", riferito a una ragione non contaminata da qualcosa di esterno. Il medioevale è invece tanto più contento, quanto più trova che le sue idee sono le stesse idee che già altri hanno sostenuto, e molto tempo prima di lui. Perché in ciò egli vede la conferma della loro validità, la conferma che non sta giocherellando con "cubetti di idee" (l'espressione è di Grygiel), ma sta pensando, soppesando con tremenda e lieta serietà la realtà stessa. Così vediamo che "sia Tommaso sia Bonaventura, i due massimi astri del medioevo filosofico, cominceranno la loro feconda attività intellettuale cimentandosi a commentare tali Libri Sententiarum."

Ma, si dirà questa attenzione al pensiero tradizionale non costituisce un colpo mortale alla creatività del pensiero, alla libertà dello spirito critico? Come già notavo nel libro sul Medioevo filosofico, è bene capire che il riferimento agli autori non andava a scapito di un giusto senso critico, che vuole conoscere come stiano le cose, come sia la realtà: i testi "autorevoli" non sono il termine ultimo, a cui si arresta la considerazione del filosofo, ma sono uno strumento per pensare (con la propria testa, diremmo noi) la realtà stessa: se "da un lato la mediazione del pensiero "autorevole" (S.Scrittura, Padri, auctores teologici e filosofici cristiani ma anche pagani) sia imprescindibile, d'altro lato l'intentio non deve fermarsi al pensiero (altrui, ma nemmeno proprio) bensì andare fino alla stessa res: il problema è cogliere come stiano le cose, come sia la realtà, che cosa davvero esista. Il lavoro dello scriptor, che umilmente tramanda materialmente i testi del passato, il lavoro del compilator, che già più creativamente li seleziona e li riordina in modo logico e sistematico, come pure il lavoro del commentator, che non solo opera su testi selezionati e ordinati, ma riesce a farli parlare all'oggi, ne illumina il senso altrimenti oscuro o ambiguo, tutti questi lavori sono in funzione comunque di quello dell'auctor, della sua sententia, del suo "respondeo dicendum", del suo poter dire "le cose stanno così". Nessun dogmatismo programmatico dunque, (...) ma solo grande fiducia nella propria inserzione in una storia buona, guidata da una Provvidenza, che ha tutto disposto perché fosse di utilità per l'ora, che scorre rapida, ma non sconnessa da un Disegno totale." (MF, pp. 11/12).

Se poi con le espressioni sopra riportate di creatività del pensiero si intende auspicare un pensiero sganciato dalla realtà, fluttuante negli azzurri cieli (stile New Age) di una imponderabile fantasia, risponderei che non so a chi possa essere utile un simile pensiero. Trovo anzi che una simile pretesa sia alla radice di un atteggiamento violento: non-violento è solo quel pensiero che si piega umilmente alla realtà, comunque essa sia, mentre chi pretendesse di far ruotare la conoscenza del reale intorno alla propria autocentrica soggettività, porrebbe le premesse per non considerare le reali condizioni ed esigenze degli altri. Come del resto non prenderebbe davvero sul serio nemmeno quella realtà che è lui stesso. Non pare perciò possibile rimproverare al medioevo un eccesso di subordinazione alla realtà: prima di tutto perché ciò, anche in linea di diritto, non costituisce un difetto, ma un pregio.

Anche perché pare assurdo spacciare per "apertura alla realtà" una concezione che postuli una inconciliabile molteplicità di prospettive divergenti. Per non essere assurda tale tesi dovrebbe ritenere che la realtà sia contraddittoria, un proteiforme blob, se invece esiste una realtà, essa deve essere pensata con grande attenzione, perché a suo riguardo si può dare solo una interpretazione che sia vera.

3) razionalità medioevale.

Certo la realtà non è conoscibile solo con l'osservazione e l'assimilazione della tradizione: essa ci è anzitutto data, così che l'originario atteggiamento è quello della apertura a un dato, ma il dato chiede di essere letto e interpretato, mobilita le energie della soggettività intelligente, in cerca di una comprensione sempre più piena. Il medioevo filosofico abbonda di casi in cui ciò era ben chiaro, e ci mostra lo spettacolo di uno sviluppo della razionalità logico-costruttiva, che non ha molto da invidiare ad Hegel: si leggano ad esempio le opere filosofiche di S.Bonaventura, come le Collationes in Hexaemeron. Anche qui ci sia consentito di rifarci a quanto abbiamo scritto nel nostro libro: "soprattutto nella Scolastica il Medioevo ha dimostrato un ineguagliato gusto per il rigore logico: ha sviluppato un linguaggio formale e preciso, divenuto e rimasto a lungo (come non mai) una koiné tra le pur varie scuole, cercando di definire i termini con la più grande esattezza 3 ; ha dimostrato di saper analizzare i problemi con incredibile scrupolo, vagliando minuziosamente i pro e i contro di ogni soluzione: basta leggere una quaestio dove, prima di arrivare al Respondeo dicendum, l'autore affronta una lista consistente di obiezioni, sia teoretiche sia di autorità (videtur quod...), che poi si prende la briga di risolvere una ad una. Un metodo tutt'altro che sbrigativamente dogmatico, e anche ben diverso dallo stile polemico di certi autori contemporanei, che, non sapendo ricorrere ad una paziente dimostrazione, utilizzano l'ironia e l'insulto per liquidare il pensiero dei loro "avversari". Infine il medioevo filosofico ha saputo costruire dei grandiosi edifici logici, delle sintesi in qualche modo onnicomprensive, come le Summae. Prima di parlare di un medioevo fideista, quindi, bisognerebbe leggere qualcosa di tali monumenti alla razionalità." (MF, pp.13/14).

Non vi è spazio qui per approfondire ulteriormente il discorso. Sarebbe interessante ad esempio dire qualcosa dei fondamenti (impliciti) di questa concezione, in particolare del fondamento teologico della apertura della ragione alla realtà, che è la convinzione della bontà del reale, il finito essendo creatura della Pienezza di ogni verità e bene, che non può perciò che volere con saggezza e bontà ciò che vuole. E qui ci sarebbe da affrontare un ulteriore, fittizio ostacolo: l'apparente disprezzo per la "carne", per il "mondo" che caratterizzerebbe il Medioevo. Così come un altro filo che dobbiamo lasciare appena accennato è quello delle implicazioni a livello metafisico della apertura della ragione alla realtà: e qui si aprirebbe la considerazione sull'essere come oggetto dell'intelletto, con tutto ciò che attiene. Non possiamo che concludere, nella forzata incompletezza di un articolo, auspicando un accesso diretto al pensiero medioevale, e vorrei dire non solo a S.Tommaso, ma anche a S.Bonaventura e agli altri autori, scolastici e prescolastici, che hanno qualcosa da dire anche a noi.

note

1. Cfr. de Lubac, "Sur la philosophie chrétienne", ed. orig. in Recherches dans la foi, Paris 1979, pp. 125/52, tr. it. in Spirito e libertà, Jaca Book, Milano 1980, pp.317/42; si veda in particolare a p. 322/4 della traduzione italiana citata

2. F.Bertoldi, Medioevo filosofico, Tools, Faenza 1995 (MF), p. 11.

3. Senza avere perciò la pretesa cartesiana di una esattezza di tipo matematico, pretesa che ha poi portato ad una instabilità ed equivocità di linguaggio ben maggiore di quella che "le philosophe au masque", a cui hanno potuto richiamarsi tanto materialisti quanto spiritualisti e idealisti, diceva di voler eliminare.