Senso storico e storicità

L'aporia della fine della storia

"Domani, domani e domani
striscia con questo passo leggero
giorno dopo giorno fino all'ultima
sillaba del ricordo del tempo;
e tutti i nostri ieri hanno illuminato
agli sciocchi il cammino verso la polverosa morte.
Via, via breve candela!

La vita è solo un'ombra che cammina;
un povero attore che tronfio si dimena
per la sua ora sulla scena e poi non se ne sa più nulla:
è una storia raccontata da un idiota, piena di clamore e di furia,
che non significa nulla"

(W. Shakespeare, Macbeth, V, 5, 19-28)

Dialettica della coscienza moderna e fine della storia

La coscienza contemporanea è posta nell'antinomia d'essere intrisa di senso storico e d'essere sempre più impotente a formulare il pensiero della storia: pensiero pensante plasmato dal senso storico della sua tradizione, ma divenuto incapace di produrre il pensiero pensato della storia. Lungo la prima metà del XIX secolo la "svolta antropologica" del pensiero moderno concludeva il suo perfezionamento attraverso il pensiero della completa storicizzazione dell'esistenza: 1807 la hegeliana Fenomenologia dello Spirito, 1844 i marxiani Manoscritti economico-filosofici, 1859 la darwiniana Origine della specie si dispongono idealmente come cerchi concentrici, secondo cui l'autocoscienza contemporanea diventa esaurientemente storica. Dall'interno all'esterno l'esperienza umana si rappresenta come storica, come strutturalmente storicizzante e radicalmente storicizzata: non solo la vita dello spirito è intimamente storica, ma anche le strutture sociali non hanno l'immutabile determinazione della "natura", perché sono prodotto della prassi umana che riproducendo se stessa storicizza la natura; questa, infine, non è un tutto dato, bensì il prodotto di un'evoluzione, l'esito appunto di una "storia naturale", che sottrae definitivamente la concezione del mondo al fissismo delle cosmologie tradizionali. Al termine di questa ideale composizione dell'autorappresentazione dell'uomo europeo la sua coscienza ha ricevuto una piena storicizzazione: l'uomo è l'ente storico che storicizza un mondo in evoluzione.

Il secolo XX è segnato, al contrario, dalla drammatica sfiducia nella pensabilità del progresso storico: vive dell'eredità trionfale delle grandi filosofie della storia, ma cammina inarrestabilmente verso il suo esaurimento, come quello di un patrimonio cui si attinge senza poterlo più alimentare, fino alla dissoluzione del contenuto concettuale di "storia".

La tesi del Loewith sulla parabola delle moderne filosofie della storia ha ancora qualcosa da insegnare: quelle hanno potuto costruire una visione unitaria del corso storico in forza del loro surrettizio ancoramento al presupposto teologico cristiano di un fine escatologico, quale condizione di senso dell'accadere storico. Condorcet e Comte, Hegel e Marx hanno elaborato un sapere filosofico sulla storia come "un'interpretazione sistematica della storia universale secondo il principio che gli eventi e le successioni storiche sono unificate e dirette verso un significato ultimativo"1. Si è potuta dare filosofia della storia, in quanto è stato possibile nominare un fine della storia, un télos manifesto, dal rapporto con il quale i fatti ottengono una loro "giustificazione". E' stata la fede cristiana che ha introdotto in Occidente l'idea del (possibile) progresso della storia in quanto tale e le moderne filosofie della storia sono tutte in vario modo filosofie del progresso storico, perché sono versioni secolarizzate della cristiana teologia della storia2. Ma appunto, in quanto forme secolarizzate portano in sé la loro contraddizione, perché vivono parassitariamente di un fondamento che viene progressivamente rifiutato. Così lo schema escatologico è fatto valere, ma svuotato del suo senso originario, ovvero la "contemporaneità" di Cristo. L'aspettativa del senso finale è mantenuto, ma via via l'attesa di compimento soprannaturale è abbandonta: si crede tanto più fermamente al progresso storico, quanto meno ci si affida al rinnovamento storico operato dalla grazia divina.

Di conseguenza, osserva Loewith, la moderna coscienza della storia è in una condizione di paradosso: essa è emancipata dalla visione teologica, ma vi rimane tuttavia dipendente, "come uno schiavo fuggito dal suo lontano padrone"; e per questo -si potrebbe aggiungere- è abitata da un profondo risentimento verso la sua origine abbandonata ma pur sempre presente. Il risultato è che la coscienza moderna della storia è "tanto cristiana nella sua origine, quanto anticristiana nelle sue conseguenze"3. Per questo l'esaurirsi della residua linfa teologica conduce la parabola della moderna filosofia della storia ad una conclusione, che, secondo Loewith allievo di Heidegger e studioso di Nietzsche, coincide con il ritorno della ciclicità necessitante propria della concezione greca.

Si delineano così i termini della dialettica immanente della coscienza storica moderna, che dalla pretesa della conoscenza puramente razionale del "segreto della storia" e dalla visione prometeica della progressività storica giunge allo scetticismo a riguardo della conoscenza dell'essere storico e alla riproposizione di qualcosa di simile all'anistorismo extragiudaico e precristiano4. Si entra così nella crisi profonda di quella coniugazione di esperienza storica e razionalità che ha caratterizzato, nella storia dell'umanità intera, la cultura occidentale. Non senza uno sconvolgimento profondo, che coincide con l'apertura dell'epoca del nichilismo con il suo tentativo di rimuovere gli interrogativi sul nesso tra storia e desiderio di felicità e sul problema del male nella storia. La fine dell'epoca moderna è così anche perdita dei lineamenti di un umanesimo storico.

La fine della storia (das Ende der Geschichte) già è espressione hegeliana, per indicare il compimento che lo Spirito ha realizzato attraverso la sua manifestazione entro la vicenda storico-filosofica mondiale: il senso della storia come Versoehnung, riconciliazione di universale e particolare, è stato raggiunto e dunque l'assoluto si dà storicamente. La storia è condotta a termine dal manifestarsi (speculativo) del suo senso, anche se l'accadere storico resta empiricamente aperto. Ad analogia della teologia cristiana, per la quale l'avvenimento di Cristo è l'escatologia in atto, in quanto compimento della rivelazione e salvezza definitiva, rispetto a cui lo svolgimento empirico degli eventi è apocalissi, ma non incremento di senso.

In età contemporanea il sintagma "fine della storia" assume, invece, il significato esattamente contrario di decadimento dell'accadere in quanto storico, a causa dell'assenza di senso identificante e unificante. Il rifiuto di ogni totalità di senso, anche di quella immanente, lascia l'empirico accadere, abbandonato a se stesso in un fluttuare nichilistico. "La fine della modernità -afferma sinteticamente Vattimo- è la fine della storia come corso metafisicamente giustificato e legittimante", come ancora avviene nelle concezioni metafisiche della storia, proposte nelle varie forme dello storicismo illuministico, idealistico, positivistico e marxista5.

Questo passaggio è avvertibile in modo significativo e decisivo nella "scuola storica", come fa ben vedere Gadamer in Verità e metodo. E' infatti la scuola storica che intende sostituire programmaticamente la ricerca storiografica alla filosofia speculativa in vista di una visione della storia universale. La scuola storica rivendica il compito di oggettività affidata alla ricerca storiografica e dunque rifiuta di presupporre alcun giudizio sul senso della storia. Tuttavia, osserva Gadamer, "l'ovvio presupposto di tale ricerca è che la storia costituisca una unità"6. Di ciò si accorge J.G. Droysen, che appunto cerca di salvare la coerenza dell'assunto facendo del concetto di storia universale un'"idea regolativa", una sorta di apriori della ricerca dotato di senso esclusivamente formale. Ma è lo stesso Droysen ad accorgersi che questo principio metodologico è assai forte, perché implica l'affermazione della "continuità" come "essenza della storia". Tale costanza infatti non è la proprietà di un oggetto, ma è il modo di uno sguardo. La storia è intrinsecamente un sapersi: "il sapere di essa è essa stessa", e dunque la costanza del processo storico è fondata nella coscienza stessa della continuità7. A sua volta, tale coscienza è condizionata dai presupposti storici della sua formazione, come osservava L. von Ranke a proposito delle origini occidentali cristiane dell'idea di storia universale.

Si istituisce così un circolo tra coscienza della continuità storica e accadere storico universale: "solo perché la storia universale ha percorso questa via [quella della civiltà occidentale] -conclude Gadamer- la coscienza storica può porre il problema del senso della storia e rappresentarsela come sviluppo unitario e costante"8. Per questo, nonostante il rifiuto della fondazione teologica e quello della fondazione metafisica hegeliana del concetto di storia universale, la scuola storica finisce per non fondare in termini puramente metodologici il suo lavoro. Per giustificare la possibilità della conoscenza storiografica ha dovuto porla in rapporto con la conoscenza divina onnipresente concepita in chiave panteistica, quale fondamento di possibilità insieme dell'unità storica e dell'oggettività storiografica. In termini diltheyani la coscienza storica è possibile, infatti, perché tutte le manifestazioni del mondo storico sono oggetti nei quali lo spirito riconosce sempre più profondanmente se stesso.

La vicenda teorica della scuola storica evidenzia in tal modo la difficoltà del pensiero della pura condizionatezza storica e conferma il vincolo che lega l'idea di storia, in quanto flusso di eventi dotato di senso (direzione e significato), a un qualche presupposto teologico.

Da parte sua la prospettiva ermeneutica gadameriana si propone come risolutiva dell'aporia dello storicismo post-hegeliano, in termini di riflessione sulla possibilità della condizione storica del comprendere intesa come storicità, a prescindere però dalla problematica dell'apertura sensata dello scenario della storia come tale e dall'interrogativo se alla storicità del comprendere corrisponda uno svolgimento storico dotato di senso compiuto o compibile9. L'ermeneutica gadameriana viene a configurarsi così come una riflessione sulla storicità senza storia, che lasciata a se stessa è oggettivamente disponibile ad una sua ricomprensione nichilista. Osserva giustamente Vattimo, nella sua "Introduzione" all'edizione italiana di Wahrheit und Methode, che "tolta alla storia una direzione teleologica riconoscibile (anche solo come télos di là da venire), la pura storicità come apertura permanente dell'interpretazione sembra non sia in grado di fornire alcun criterio, e quindi alcuna vera possibilità di integrazione [dei fattori storici in una figura di senso] sia pure provvisoria"10.

Soteriologia anistorica e storia della salvezza

La crisi contemporanea del senso storico riaccende l'interesse per le condizioni di possibilità dell'esperienza dell'accadere come storia. In concreto si tratta di indagare il rapporto tra vissuto religioso, teologia e storia. Sembra, infatti, che senso storico sia originariamente possibile solo all'interno di un'esperienza religiosa. Ma c'è da chiedersi subito se qualunque tradizione religiosa sia storica oppure se la dimensione storica sia propria solo di una determinata configurazione del religioso.

Ciò che la storia della civiltà sembra testimoniare inequivocabilmente è, da una parte, che il problema della storia si formula sempre in rapporto all'interrogativo sulla possibilità di salvezza dell'esistere, in rapporto cioè ad una qualche forma di riscatto del naufragio ontologico; d'altra parte, però, che sono di gran lunga prevalenti le culture in cui l'uomo vive uno stato di diffidenza e di inimicizia verso l'accadere storico e dunque vive piuttosto una condizione anistorica. Sembre insomma che nella prospettiva spontanea della civiltà l'accadere non sia situazione favorevole per la vita dell'uomo e che ciò che per l'uomo moderno è ovvio -che l'uomo è nella misura in cui si fa nella storia- sia invece estraneo alla maggior parte delle forme sapienziali dell'umanità, in cui prevale piuttosto l'idea che la dignità dell'uomo sta nella sua capacità di sfuggire al tempo e di sottrarsi all'accadere.

La più arcaica forma di coscienza ambiguamente storica è quella del mito, in cui si ritrovano le società arcaiche provenienti dal paleolitico e le antiche civiltà millenarie. Il mito narra una storia sacra, che dice di avvenimenti del tempo primordiale, il tempo favoloso delle origini. Esso narra ad esempio degli esseri soprannaturali e della loro opera di "creazione" del mondo e così, facendo conoscere come una certa realtà è stata prodotta per la prima volta, rende possibile la comunicazione con quella realtà e il suo dominio, dando organizzazione sensata all'azione dell'uomo e fornendo garanzia per la sua riuscita.

Il mito, attualizzato dal rito, esalta la funzione del tempo primordiale dell'origine, come tempo forte che è il ricettacolo di ogni nuova "creazione"; a sua volta, il rito, narrato dal mito, reintegra il tempo favoloso, rendendo i celebranti contemporanei degli avvenimenti evocati. Si esce così dal tempo profano, cronologico e si entra nel tempo sacro, indefinitamente ripetibile. Come ha scritto Eliade, l'azione rituale miticamente raccontata, in quanto "ripetizione" del gesto archetipo, è l'"azione reale", che, in quanto tale "sospende la durata, abolisce il tempo profano e partecipa del tempo mitico". In tal modo il senso mitico del tempo manifesta la sua ambivalenza. Da una parte, la negazione dell'assoluta irreversibilità del tempo aiuta l'uomo arcaico a costruire il suo mondo e lo libera dal peso del passato, perché pone in rapporto ciò che intraprende (nell'ordine famigliare, economico, terapeutico, sociale, bellico, ecc.) con un archetipo che gli garantisce che già tutto è stato fatto e dunque tutto può essere rifatto; dall'altra, l'atteggiamento mitico esprime un desiderio metafisico di esorcizzare il tempo e la servitù del suo passato immutabile e del suo futuro imprevedibile. Sotto questo profilo il mito significa che l'opera del tempo è qualcosa da cui l'uomo ha bisogno di guarire, ritornando all'indietro fin a raggiungere l'inizio del mondo. L'uomo della cultura arcaica "sopporta difficilmente la storia e si sforza di abolirla periodicamente"11.

Anche per chi ha una valutazione più costruttiva a riguardo del mito, come R. Petazzoni, per il quale il mito, con il suo valore eziologico e la sua funzione di prorogazione della vita, inserisce nell'esperienza temporale piuttosto che sospenderla, resta vero che la narrazione mitica non perde la sua ambiguità di apertura dell'esperienza e insieme di iscrizione sua in archetipi che si possono solo ripetere, chiudendo l'esperienza stessa alla possibilità del nuovo12.

Le civiltà di cultura mitica arretrano sulla scena della storia via via che prendono corpo le nuove energie che prodigiosamente, in un arco di tempo relativamente breve (tra l'800 e il 200 a.C.), in una fascia geografica discontinua, distesa lungo il medio e l'estremo Oriente, riplasmano la visione dell'uomo nel mondo. K. Jaspers ha chiamato "periodo assiale" ("Achsenzeit") questo crinale della storia della civiltà, per indicare insieme la soluzione di continuità che esso ha rappresentato nei confronti del passato mitologico della cultura umana e il riferimento paradigmatico che ha costituito per il successivo corso dell'umanità13.

E' in quel periodo eccezionalmente fecondo della civiltà umana che, in diverse forme è emersa un nuovo tipo di autocoscienza dell'essere uomo. Differenziandosi dalle tradizioni mitiche millenarie si formulano in Cina le saggezze di Confucio e di Lao-tse e si profilano le grandi linee della filosofia cinese. In India il nuovo tempo è inaugurato dalla fioritura delle Upanishad, cui si accompagna la riflessione della filosofia indiana e cui sopravviene l'ascetismo di Buddha. In Iran si inaugura il magistero di Zarathustra, per Israele è l'età dei profeti. L'Ellade vive la sua epopea da Omero ai tragici, dai Presocratici ad Aristotele, da Esiodo agli inizi tucididei della storiografia critica.

Sono queste le forme del primo "rinascimento" dell'umanità, in cui si compie con un'accelerazione inedita un processo di spiritualizzazione di sorprendenti dimensioni: il pensiero prende ad oggetto se stesso e pone i germi di nuove civiltà. Sono poste anche le basi delle religioni universali, di cui vivrà la successiva umanità, accomunate da un acuto senso del divino come mistero e, seppur spesso ambiguamente, della sua trascendenza. Ma è anche l'età della riassunzione del mythos nel logos e talvolta dell'espunzione del mythos da parte del logos. Il mythos diventa oggetto dell'indagine critica da parte del logos, che comincia a sapersi come tale, mentre l'uomo diviene tematicamente problema a se stesso come soggetto etico e comincia drammaticamente a sottrarsi alle tradizioni delle normative sociali.

Non è dunque esagerato dire con Jaspers che l'umanità è vissuta fino ad oggi di ciò che è avvenuto durante il periodo assiale, in una sostanziale continuità fatta, soprattutto per l'Occidente europeo, di riprese, di rinnovamenti, di "rinascimenti"14.

Nel periodo assiale l'esserci umano diviene oggetto di riflessione anche come storia o, per lo meno, in rapporto all'accadere storico. E' in questa età che si formulano i grandi modelli di interpretazione del corso storico: circolarità ripetitiva, continuo decadimento dalle origini, possibile ascesa, ecc. Ma ad una sintesi teoretica risulta che gli atteggiamenti nei confronti dell'accadere storico si possono ricondurre a due orientamenti, fondamentali e contaddittori tra loro. Accomunante è il definirsi del senso storico dell'accadere in rapporto -come già si diceva- al problema della salvezza; discriminante è, invece, se tale salvezza sia essa stessa storica, e quindi fondativa di storia, oppure alternativa all'accadere storico, avvertito piuttosto come il luogo della perdizione. Basti accennare in proposito a qualche esemplificazione.

Il pensiero indù ha al suo centro il problema soteriologico in termini di liberazione dal corpo, dal divenire e dalla vicenda temporale. Salvezza significa sottrazione alla legge del karma, dell'eterno ritorno nell'esistenza materiale, principio della sofferenza. La liberazione è possibile perché la realtà esterna non "spirituale" (materiale, psichica, anche intellettuale) è solo concatenazione di fenomeni, sprovvista di senso interno, senza disegno unitario. Solo nell'esperienza spirituale c'è rivelazione di un universo superiore e divino, attingibile attraverso mezzi che nulla hanno a che fare con un destino storico dell'uomo: la contemplazione interiore è mistica del Sé, opposta fino alla contraddizione al mondo del divenire storico15.

La dottrina più antica troverà la sua forma più rigorosa nell'insegnamento di Sankara (VIII-IX secolo d.C), che professa senza restrizioni la filosofia dell'illusione universale e del monismo incondizionato, in cui il finito è dissolto nell'indifferenziazione infinita. "E' per sfuggire questa causa di ogni miseria -scrive Sankara- in riferimento alla scoperta della Scienza dell'Unicità del Sé, che intraprendiamo lo studio della somma vedantica"16. Le dottrine brahmaniche sono così, come osserva Lacombe, più radicali dello stesso dualismo platonico. Se qui, infatti, il contingente, l'opinabile, e l'apparente riguardano solo il mondo sensibile e molteplice, la maya (illusione ed errore insieme) si estende anche al mondo delle essenze e dell'intelligibile.

Affine alla spiritualità platonica è invece il brahmanesimo quanto al senso dell'individualità intesa come limitazione della pienezza infinita e indifferente dell'Uno e quanto all'esperienza di introversione mistica centrata sulla risoluzione metafisica dell'identità del singolo. In tal modo, simile al neoplatonismo, la spiritualità induista non è volta tanto alla purificazione delle relazioni dell'individuo con il cosmo, con gli altri e con il Principio stesso, quanto alla abolizione della relazione stessa e all'identificazione17.

Il buddhismo lascia da parte le questioni metafisiche. Al suo centro sta il problema terapeutico della vita: Siddharta Gautama (560-480 a.C.) si presenta come "buon medico". L'intuizione originaria sta nel programma di liberazione degli essere viventi dall'esistenza penosa che li lega alla "catena delle vite" che si susseguono. L'uomo nasce in uno stato di malattia determinato dal desiderio intramondano, a causa del quale la vita tutta è dolore. La guarigione può avvenire seguendo gli otto sentieri, che come cammino sacro, lungo tre tappe di perfezione (condotta etica o sila, disciplina mentale o samadhi, saggezza o panna), conduce all'estinzione totale degli appetiti e del desiderio come tale, fino all'esperienza sovrumana dell'"estinzione" o nirvana18. Così anche per il buddhismo non c'è propriamente storia, se non come teatro indifferente della vicenda etico-spirituale dell'uomo, la cui salvezza sta nel sottrarsi per crescita interiore al suo impegno mondano.

Ad Occidente la filosofia greca, considerata come via di saggezza, è orientata alla liberazione dell'uomo dal primato del contingente e dalla schiavitù del tempo. Ciò è particolarmente evidente in Platone, per il quale l'imitazione di Dio è evasione dal mondo empirico dell'apparenza19 e in Plotino, la cui ascesa del saggio si conclude con la fuga "da solo a solo", nell'unità coll'Uno in cui il tempo è abolito20. Ma anche nello stoicismo l'adesione al corso delle cose, in cui si concreta la libertà, non dà luogo ad un attivo senso storico, perché significa piuttosto accettazione della necessità dell'accadere e della ciclicità del cosmo.

Lo stesso Aristotele, che pur fornisce elementi originali per il pensiero della storia, non giunge a delineare figure unificanti di senso dell'accadere in quanto storico. Aristotele, nel quadro della cosmologia greca, dedica un'inedita attenzione alla realtà ontologica, psicologica e poietica dell'azione umana. Così necessità cosmologica, azione umana e casualità costituiscono fattori fondamentali per la composizione di una nuova idea di avvenimento21. Ma Aristotele si ferma ad un abbozzo analitico delle condizioni della storicità, che non apre lo scenario del senso storico, perché è assente una cifra unificante che renda intelligibile l'accadere come storia. Il finalismo dell'azione umana, infatti, è inscritto in una cosmologia ciclica ed è limitato entro un'ontologia delle forme eterne, per cui, se la legge del movimento sublunare è rettilinea e contingente secondo l'individuazione, è però circolare e necessaria secondo la specie. Ma l'intelligibilità secondo verità è propria del necessario e dunque l'accadere storico umano ha un'intelligibilità solo verisimile che resta subordinata all'unità di senso della necessità ciclica naturale22.

Similmente, l'inventiva capacità analitica dei grandi storiografi greci, come Erodoto, Tucidide e poi Polibio, inaugura la metodologia critica della ricerca storica. Come afferma Erodoto nel "Proemio" delle sue Storie, scopo dell'indagine è scoprire le "cause" degli avvenimenti, salvare dall'oblio le "azioni grandi e mirabili" degli uomini (greci e barbari), dar loro "gloria" e, così facendo, comparare anche le diverse forme di civiltà. Si tratta dunque di spiegare l'accaduto e di cogliere in esso esempi paradigmatici di senso dell'agire umano. Anche qui si manifesta un avvio di senso storico, che però si scontra con la più generale concezione dell'accadere umano avvolto dalla necessità della ripetizione. Se storia degli uomini c'è, questa è un aspetto particolare di un più grande divenire cosmico retto dalla necessità: la conoscenza storica insegna che le società umane nascono, crescono, decadono e muoiono23.

La cultura filosofica greca costituisce nel suo insieme l'evento di maggior laicizzazione interno allo stesso periodo assiale. Ma proprio in ciò essa costituisce un esempio perspicuo della difficoltà che l'antichità ha a pensare la storia. Nella misura in cui, infatti, il pensiero greco si è mantenuto legato alla forma della saggezza, come nel platonismo in senso lato, ha ripetuto in chiave speculativa le movenze di una fuga mundi, rispetto a cui la storia è l'ombra negativa della salvezza. Nella misura in cui, invece, la filosofia greca di indirizzo aristotelico ha intrapreso la via della conoscenza "scientifica" del mondo, ha pensato la storicità, ma non ha potuto pensare il senso storico dell'agire, non ha potuto cioè inscrivere l'agire umano in una storia.

Nel più tardo contesto dell'ellenismo il complesso fenomeno dello gnosticismo costituisce un altro esempio ricco di insegnamento, perché in esso si evidenzia in modo particolarmente vivido che il tema della storia prende corpo in rapporto al problema della salvezza. Secondo la lettura del fenomeno gnostico che fornisce Puech, questo ha una visione della condizione umana nel cosmo che lo distingue sia dalla visione greca, di cui non condivide l'idea della divina necessità e bellezza dell'universo, sia da quella ebraico-cristiana, di cui non accoglie l'idea provvidenziale. Il cosmo gnostico, infatti, è opera di una dio inferiore e malvagio, che rinchiude l'umanità nel carcere della materia e della corporeità. La storia perciò "non serve a nulla", conclude Puech24; essa stessa è effetto dell'azione creatrice del dio inferiore e ne condivide i caratteri di imperfezione e di malvagità. Il tempo non è dunque, platonicamente, imitazione dell'eternità, ma è falsità, uno pseudos, come tutto ciò che è parte della creazione materiale e che l'intervento del Dio buono (e per questo "straniero" e "sconosciuto" in questo mondo), rivelando la gnosi salvifica, mostra nella sua miseria.

La liberazione avviene con la "gnosi", che insegna all'uomo la sua appartenenza spirituale al mondo trascendente il cosmo materiale. "La gnosi -scrive Puech- è reminiscenza di sé, ritorno a uno stato primitivo e permanente, recupero di un essere eternamente esistente nella sua elezione, salvato dalla sua origine e da tutta l'eternità"25. Il "perfetto", lo "spirituale" ritrova il suo essere vero, che è velato dal tempo. La salvezza è "resurrezione", che interessa solo la parte spirituale e intemporale dell'uomo, come risveglio e rigenerazione interiore.

L'interpretazione di Puech è stata contestata e corretta da autori che rifiutano la pura contrapposizione tra piano pleromatico atemporale e piano mondano temporale, perché ritengono che nella gnosi antica anche il mondo sensibile partecipi a suo modo dell'unica economia di salvezza voluta dall'eterno Padre. Anche il mondo sensibile in questa diversa prospettiva è oggetto della provvidenza divina finalizzata alla purificazione e ricomposizione dell'unità pleromatica. Per gli gnostici -similmente ai cristiani- il mondo materiale diventa momento di progressione e maturazione della Chiesa spirituale e il tempo non è perciò inganno, ma luogo e strumento di salvezza. Così si può arrivare a dire che per lo gnosticismo esiste una vera e propria teologia della storia, in quanto la storia è per esso necessaria alla realizzazione dell'"oeconomia salutis"26.

Non è certo compito nostro entrare nel dibattito storiografico sulla gnosi. Qui è sufficiente osservare che i modelli interpretativi proposti confermano comunque l'ipotesi di fondo su cui stiamo riflettendo; ovvero che la realtà storica prende rilievo sempre in rapporto ad un evento di salvezza, fosse anche per negarne ogni valore. Essa poi riceve consistenza e assume segno positivo -emerge cioè alla coscienza come "senso storico" costruttivo- in proporzione diretta alla valenza storica dell'evento di salvezza stesso: l'accadere assume fisionomia e spessore di storia nella misura in cui è investito del senso della salvezza.

Un'ulteriore documentazione di ciò è la concezione della storia che è intrinseca allo zoroastrismo, in cui si ha il caso extrabiblico di maggior concentrazione del senso della storia. Infatti per la religione dell'antico Iran la storia è sacra, in quanto essa è il campo di battaglia e la posta in gioco della lotta tra il principio del bene (Ohrmuzd) e il principio del male (Ahriman), in vista di un termine della storia del mondo, quello della sua trasfigurazione, che coincide con la vittoria definitiva di Ohrmuzd. Nello zoroastrismo, dunque, emerge con vigore la dimensione escatologica quale condizione dell'unità di senso dell'accadere totalizzato dalla fine. Il tempo della creazione non è perciò soggetto ai cicli cosmici del fatale ritorno, ma veicola un'avventura irreversibile, che dà un valore positivo all'impegno nel mondo, alla procreazione, alla prosperità terrena, alla lotta contro il male per il trionfo del bene.

Ebraismo e cristianesimo

L'idea di storia sacra ha in Israele una concentrazione di incomparabile intensità, fondata sulla manifestazione dell'Altissimo nel mondo, che è insieme elezione del popolo per un progetto di riconciliazione divina delle genti e del cosmo, che va progressivamente chiarificandosi nella drammatica storia della progenie di Abramo. La storia di Israele è infatti il contenuto insieme della sua religione e della sua identità etnico-culturale, sul fondamento della sequenza degli interventi di Yahwé. Il suo Nome "Io sono colui che sono" (Es., 3, 13-14) dice "Colui che è veramente e realmente là", stabilità eterna e attiva presenza: Presenza sovrana e nascosta nei suoi interventi, che tessono la storia della salvezza27.

La dinamica interna della storia di Israele è istituita dalla doppia polarità della "alleanza" e della "promessa", dell'alleanza cioè, che si manifesta progressivamente come stabilita per sempre e per tutti i popoli, e della promessa di compimento storico del contenuto dell'alleanza stessa. Così l'alleanza con Mosé si proietta nella promessa della terra e l'alleanza con Davide in quella della regalità perenne; l'alleanza con Noé vale per tutti i popoli e per il cosmo intero e l'alleanza con Abramo sancisce la promessa di paternità di innumerevoli discendenti e di molti popoli; mentre la coscienza dell'alleanza nei profeti diverrà sempre più intima e personale e insieme sempre più universale.

Il "buon annuncio" del Nuovo Testamento è l'evangelo della coincidenza in Gesù di Nazareth di Alleanza e Promessa: l'atteso dalle genti è venuto, riempiendo di nuovo e definitivo contenuto il patto stabilito da Dio. Se la beatitudine dell'Antico Testamento sta nel "timore" del Signore, cioè nella memoria delle sue grandi opere e nella fiducia nella sua fedeltà; la beatitudine del Nuovo Testamento è nella fede mariana nel "compimento" della Parola: "beato l'uomo che teme il Signore e trova grande gioia nei suoi comandamenti", afferma il salmo; "beata colei che ha creduto nell'adempimento delle parole del Signore", risponde il vangelo di Luca28.

Alla promessa subentra così il "giudizio", come misura del rapporto al compimento ormai dato. Il senso storico cristiano ha il suo luogo precisamente nel "giudizio", nascosto nel Padre, ma già reso manifesto nella storia del Figlio, incarnato e morto-risorto: il mondo è già giudicato (Gv. 12,31), la misura è posta e la storia si svolge (in realtà si è già sempre svolta) come partecipazione (positiva o negativa) al compimento voluto ab aeterno dal Padre.

I vangeli sinottici parlano, infatti, di proprietà e di regni, dei quali i padroni e i re sono detentori, ma da cui sono assenti come per un viaggio; oppure di eredità, di cui già è stata attribuita la proprietà, ma non ancora il possesso; di amministrazioni già in esercizio, ma non ancora rendicontate; o, ancora, di nozze già celebrate, ma non ancora consumate. In questa prospettiva Paolo afferma che con Cristo "il tempo si è fatto breve" (I Cor. 7, 29), perché il "giudizio" con la sua misura di valore si è manifestato nella persona di Figlio di Dio e ormai domina ogni istante del tempo, raccogliendone il senso. E' il grande tema dell'Apocalisse, ove la signoria di Dio domina l'ambiguità della storia e ne vaglia la verità, cioè la conformità o la difformità da colui che ne è il centro di senso, cioè l'Agnello regale immolato29.

Questo è infatti il contenuto assolutamente originale della storia cristiana di salvezza, in cui si concentrano e si trasfigurano tutte le figure della promessa anticotestamentaria. Il "sacerdote", il "re", il "profeta", il "servo sofferente", supreme figure di senso della storia di Israele, trovano in Cristo, agnello regale immolato, la loro nuova concentrazione da cui viene aperto, come apocalittico volumen sigillato, il senso della storia: che il Padre cioè conferma definitivamente la sua alleanza attraverso l'assunzione nel Figlio, servo sofferente, anche di tutta la contraddizione ad essa, del male del mondo e dell'infedeltà stessa del popolo eletto.

La radicalità storica del cristianesimo si misura esattamente dal toglimento in esso dell'obiezione che il male e la corruzione costituiscono alla possibilità di riconoscere la totale sensatezza dell'accadere30.

La raffigurazione cristiana della storia

I Padri della Chiesa, sia greci sia latini, condividono l'idea che la storia santa è fatta di eventi che sono inizi assoluti. Per Gregorio di Nissa la storia santa "passa da inizio a inizio, attraverso inizi che non hanno mai fine"31: le promesse di Dio infatti sono irrevocabili. Anche Agostino considera i grandi eventi operati da Dio come realtà che cominciano e non finiscono: la creazione del mondo e dell'uomo, l'alleanza con Abramo, la resurrezione di Cristo sono gesti di Dio che inaugurano realtà suscitate per l'eternità.

Questa visione, illuminata dall'avvenimento pasquale, sconvolge la concezione metafisica greca, che conosce solo due ordini di realtà: quelle che non hanno mai inizio né fine (le cose divine, theia) e quelle che cominciano e finiscono. Il cuore speculativo ed etico della filosofia greca sta nel problema e nel tentativo del passaggio dalle seconde alle prime. Nella visione cristiana invece non è più necessario uscire dalla "carne", sottoposta al divenire, per partecipare di Dio, perché la partecipazione è donata nei mirabilia Dei, che innervano la storia, quali germi della sua trasfigurazione finale.

Ogni concezione fenomenistica del tempo a favore dell'eternità è radicalmente dissolta dalla "escatologia storica" cristiana, in cui nel Cristo glorioso è già data tutta la perfezione, cui è chiamata la storia umana, da cui anzi è accompagnata, sorretta e attratta: "quando sarò elevato da terra -dice Cristo nel vangelo di Giovanni- attirerò tutti a me" 32. Il compimento attende la sua manifestazione finale, ma tutta la sua perfezione è già data nell'evento intrascendibile di Cristo. Con la sua morte-resurrezione Cristo è posto al di là d'ogni svolgimento storico possibile: il Lui lo stato finale "esiste in sacramento", secondo l'espressione di O. Cullmann. Ogni possibile novità è già contenuta in Lui, perché nella sua persona morta-risorta è dato il termine, il télos assoluto della storia, anche se non è ancora relizzata la fine, péras, cioè la ripercussione della sua opera in tutta l'umanità secondo la misura nascosta nel Padre.

Tra gli eventi vi è allora un legame che ne fa una storia: è la continuità costituita dal fatto di essere iscritti nell'unica economia di salvezza che tesse il piano oggettivo della salvezza. In questo senso Cristo è il "legame" vivente in rapporto a cui tutti gli eventi prendono ultimamente senso, cioè la loro consistenza e individualità in rapporto al destino eterno. L'escatologia storica cristiana, infatti, nel momento in cui raccoglie in unità il senso della storia, attribuisce anche fisionomia singolare di senso ad ogni avvenimento: la massima universalità escatologica fonda la massima individualità di ogni accadimento.

La storia della salvezza connette perciò gli avvenimenti, a partire dal rapporto di quelli antecedenti con quelli conseguenti la venuta di Cristo, secondo una relazione tipologica: vi sono in essa analogie di struttura tra gli eventi che costituiscono il criterio di intelligibilità della storia stessa. Così, nell'ermeneutica teologica di Paolo la figura di Adamo è vista come "tipo" di colui che doveva venire, del Cristo "antitipo", oppure in quella di Pietro c'è rapporto tipologico tra l'arca di Noé e il battesimo cristiano33. La patristica userà ampiamente di questo procedimento di figurazione e di corrispondenza per significare i tempi dell'"oeconomia salutis" nei rapporti tra Antico, Nuovo Testamento e Chiesa.

In tal modo il cristianesimo con lo stesso gesto con cui libera l'uomo dall'angoscia della storia introduce il germe dell'agonia del mondo. La vicenda umana, proprio perché dotata di senso storico, è caricata di una densità e una dramaticità sconosciute prima: la storia è il luogo della decisione della libertà umana nel suo rapporto con quella divina, sia nell'incontro o scontro esplicito con Cristo, sia nell'orientamento spirituale e morale di ogni uomo, che comunque è in rapporto con il Verbo di Dio. Il "giudizio" che è Cristo, non porta la pacificazione della storia ("non sono venuto a portare pace, ma una spada"), ma la sua polarizzazione in rapporto al "compimento"34. Più precisamente, il giudizio costituisce la "pietra angolare" secondo cui è decisa la consistenza di ciò che avviene nella storia: solo ciò che è secondo Cristo consiste e non è dissipato agli occhi di Dio. Come rivela la scena del giudizio finale rappresenta da Matteo, l'agire storico passa al vaglio ontologico e morale della misericordia divina e solo ciò che di fatto e da chiunque è compiuto come consapevole o inconsapevole partecipazione a tale misericordia è accolto nella definitività del "regno"35.

Agostino, più di ogni altro, ha enucleato il senso drammatico della storia con la dottrina delle "due città", colte sia nella loro mescolanza storica, sia nella loro gerarchia escatologica. Di qui l'idea dell'irresolubile "ambivalenza" della storia umana lungo tutto il suo corso, in cui si giocano la "permixtio" e la "commistio" dell'"amor sui" e dell'"amor Dei", in un modo che resta ultimamemte indiscernibile all'occhio umano, perché la linea di confine delle due città passa per il "cuore" degli uomini, pur nella certezza di fede della "ricapitolazione" conclusiva d'ogni bene nella vittoriosa Gerusalemme celeste.

Per tutto ciò la raffigurazione cristiana della storia non solo rompe con l'immagine della ciclicità pagana, ma non è neppure assimilabile alla linearità ebraica, perché si negherebbe in questo caso l'assialità storica di Cristo. Piuttosto, della linearità ebraica il cristianesimo mantiene la dimensione del futuro, in cui ancora il compimento deve svolgere tutti i suoi effetti; mentre, della ciclicità pagana il cristianesimo contiene il significato religioso del dominio divino sul corso degli eventi e l'idea (come nel neoplatonismo) dell'exitus e del reditus, ma con esclusione della pura ripetitività, essendo il reditus cristiano non restaurazione della condizione originaria, ma come dice s. Paolo "molto più", in quanto trasfigurazione divina dell'uomo morto-risorto in Cristo36. La raffigurazione cristiana del corso storico è assimilabile perciò all'immagine della spirale, il cui asse è Cristo, presente ad ogni punto dello svolgimento degli eventi e la prossimità o lontananza al cui asse misura il senso e il valore degli eventi.

Rifrazione cristiana e senso storico

Dalla teologia cristiana della storia sono scaturite le grandi categorie di comprensione della realtà storica che hanno impregnato di sé la cultura occidentale. Ma, se solo in termini teologici è stato possibile concepire l'essere in quanto storico, ciò non significa che il pensare teologico non abbia risvegliato la possibilità di un autonomo pensare ontologico. Anche in questo caso, come in quello dell'idea personologica, bisogna riconoscere con Gilson e Maritain che la fede ebraico-cristiana è stata "generatrice di ragione". Il legame di continuità, la decisione della libertà, la relazione tipologica, secondo cui l'esperienza della fede e la riflessione teologica hanno vissuto e pensato la storia, sono state la densa formulazione di quelle che anche razionalmente possono essere considerate le condizioni ultime di possibilità e di pensabilità dell'essere storico come tale. Tali condizioni sono probabilmente riconducibili a quattro idee, costitutive dell'intreccio strutturale e indissolubile dell'accadere in quanto storico: unità e continuità, libertà e intelligibilità.

Non c'è storia perché semplicemente qualcosa accade, ma solo se l'accadimento riceve un incremento complessivo di senso che lo renda "evento". Il primo modo di incremento è il riconoscimento dell'appartenenza dell'accadimento ad un logos unificante la molteplicità sincronica e diacronica in cui esso è inserito. Non c'è evento, se è assente un logos universale che costituisca il legame unificante gli accadimenti particolari, che istituisca l'identità dei differenti e dunque la loro appartenenza analogica.

Implicata nell'unificazione onto-logica degli accadimenti è l'idea della continuità dell'accadere, ovvero il darsi di un processo di realizzazione del logos universale e unificante: che gli accadimenti abbiano unità di senso nella loro appartenenza al logos significa che questo in qualche modo e misura (in termini immanentistici o trascendentistici, ora non ha importanza) si realizza, si esprime o si manifesta in essi. Ciò dà continuità di evento storico agli accadimenti empirici.

L'unità processuale degli accadimenti è la condizione minima perché questi siano sottratti ad una molteplicità equivoca priva di senso. Mentre è l'incremento della libertà che apre lo scenario dell'azione come modalità peculiare dell'avvento del logos. La libertà, infatti, interagendo con l'unità processuale degli accadimenti apporta un ulteriore e decisivo senso che viene a comporre l'evenemenzialità storica.

Si potrebbe dire, obiettando, che in realtà è l'azione libera stessa che con il suo agire costituisce il logos unificante e realizzante, così che essa è la vera sostanza dell'evenemenzialità storica. Ma tale sganciamento della libertà da un accadere di senso che la preceda, la chiuderebbe in un prometeismo dissolutore del tessuto storico: ogni libertà empirica, infatti, arrogandosi il diritto di determinare l'unità e la continuità di senso degli avvenimenti, condurrebbe all'impossibilità del costituirsi di un senso storico, cioè della storia. Per questo ogni forma di un simile libertismo soggettisvistico conclude necessariamente alla fine della storia. Né vale il rimedio di pensare ad una libertà trascendentale, superindividuale, che annullerebbe l'effettività della singola libertà reale.

Altra cosa è invece pensare che il logos unificante e realizzante, con cui la libertà umana finita ha a che fare, sia esso stesso Libertà (come pensano in modo diverso il cristianesimo e l'idealismo moderno). In questo caso si dirà che il gioco della libertà finita è esercizio (consapevole o inconsapevole) di rapporto con l'accadere della Libertà infinità. Ma anche in questa prospettiva resta vero che l'evenemenzialità storica sorge nell'interazione di un logos includente e di una libertà attiva, precisamente come sintesi del loro incontro.

Proprio perché l'evento storico non è puro prodotto della libertà umana, esso appare come qualcosa che, se da una parte esige la libertà finita (per non ridursi a mero accadimento naturale), dall'altra eccede sempre la libertà e in qualche misura (spesso assai ampia) la trascende e le si impone. Anche la libertà, infatti, è logos, ma in quanto finita, in ogni sua iniziativa, se per un verso lo esprime, per un altro sempre lo presuppone e lo rifferma nella sua alterità trascendente. Il gioco poi delle libertà finite, nell'infinita complessità del loro intreccio, non fa che amplificare la condizione della libertà umana insieme come protagonista e come suddita dell'accadere storico.

Per questa sua composizione di logos abbracciante e di libertà operante la storia implica e offre una sua intelligibilità, in cui è appunto leggibile il suo accadere come dotato di senso secondo unità, continuità e libertà. D'altra parte, tale sensatezza d'evento per la sua differenza interna di logos assoluto e di libertà relativa non può mai darsi come dispiegata manifestazione, ma sempre solo come simbolico indizio della totalità. Più precisamente, l'intelligibilità del senso della storia si dà per tipi o meglio per archetipi, quali figure riconoscibili della realtà realizzata e realizzabile del logos nella sua interazione con la libertà umana. Per questo tutte le culture che hanno senso storico vivono di un patrimonio di archetipi e viceversa la fine della storia si manifesta come perdita di sapienza archetipica37.

Fin qui è posta in scena l'evenemenzialità storica nei suoi lineamenti strutturali indispensabili, di cui è vissuto, con diverse e contrastanti configurazioni, l'Occidente innervato dalla tradizione ebraico-cristiana. Ma tale "ragione storica" è operativa -come già ci è apparso-, solo in quanto si misura con il problema dell'"irrazionale" storico, solo cioè in quanto è in grado di rispondere alla sfida della sua contraddizione. Le ultime condizioni di possibilità dell'evento storico stanno solo se superano la prova della loro smentita ad opera del male storico. Ma ciò significa che la condizione delle condizioni è data con la possibilità di un'"anticipazione di totalità"38, in cui sia posto e garantito come ideale reale un compimento, che rispetto al male dissolutore appare come "salvezza". Se la storia non è in relazione con una qualche salvezza delle sue condizioni, il senso storico naufraga nella tempesta della contraddizione. In ultima istanza, senza una "storia di salvezza" semplicemente non c'è storia: l'evento storico non si istituisce o, istituito, irrimediabilmente deperisce.

Se, dunque, il pensiero dell'accadere storico, pur mosso dalla riflessione teologica, è di per sé accessibile all'analisi ontologica-metafisica, la sua salvaguardia torna ad essere di natura teologica. Avuta la sua gestazione nel grembo teologico, l'idea della storia si è in sé costituita; ma al grembo teologico deve ancora ricorrere per sottrarsi alla potenza distruttiva del negativo.

Così, da Agostino a Vico la garanzia del senso è direttamente o indirettamente teologica. Se in Agostino la teologia della storia sbozza al suo interno i lineamenti speculativi della storia come senso; in Vico, non senza difficoltà, la ricerca della storia delle Nazioni si dà nel presupposto di una dualità di storia sacra e storia profana, che, se da una parte apre lo spazio per l'autonomia di una filosofia della storia, dall'altra la include nel più ampio orizzonte di un'unica Provvidenza che opera ai due livelli in due modi differenti: la storia profana porta in sé -naturalmente- il germe provvidenziale del riscatto salvifico delle Nazioni, cioè della loro conservazione come storia; gli uomini hanno salvezza invece dalla grazia soprannaturale veicolata dalla storia sacra. In entrambi i livelli (quello delle Nazioni e quello degli individui) -non a caso- il male porta in Vico sempre il nome teologico di "peccato originale".

E' invece con Herder che avviene il rovesciamento della prospettiva, in cui la storia sacra è inglobata nella storia profana e questa diventa per se stessa storia di salvezza39. E' così aperta la via alla teoresi hegeliana, che forse in sintonia con la prospettiva teologica inaugurata da Gioacchino da Fiore40, giunge alla risoluzione intrastorica del negativo e converte così la storia della salvezza in salvezza della storia, forgia cioè l'idea della storia stessa come salvezza41.

Ritorniamo così al punto di partenza della nostra riflessione, al momento cioè in cui l'enfasi sul senso storico coincide con la sua smentita. L'immanenza soteriologica della storia, infatti, annichila la possibilità che la storia abbia davvero salvezza: nessuno infatti può essere sensatamente salvatore di se stesso. Una storia che coincide con la sua salvezza è in realtà un evento che coincide perfettamente con il suo senso e che vanifica l'effettività del male42. La concezione hegeliana della storia conduce, da questo punto di vista, alla sua autosoppressione a favore della nietschiana"innocenza del divenire" e per questa via prelude inevitabilmente al nichilismo storico.

 

note


1K. LOEWITH, Significato e fine della storia. I presupposti teologici della fine della storia (1949), tr. it. Ed. di Comunità, Milano 1965, p. 14.

2Non diversamente, secondo Marrou fino a Nietzsche "tutto il pensiero occidentale ha vissuto, per quanto riguarda la storia, degli schemi cristiani. Così come si è sviluppata, soprattutto a partire da Condorcet e da Hegel, la filosofia della storia appare come una trasposizione sul piano naturale dei concetti di base ereditati dalla teologia cristiana, quale era stata a sua volta ereditata dal Medio Evo da sant'Agostino [...]" (H.I. MARROU, L'ambivalence du temps de l'histoire chez saint Augustin, Vrin, Montréal-Paris 1950, p. 15. Similmente E. GILSON in L'esprit de la philosophie médiévale, Vrin, Paris 19442, pp. 374-375 e in La métamorphose de la Cité de Dieu, Vrin, Paris - Pubblications Universitaires, Louvain 1952, p. 288. Approfondisce il giudizio H. DE LUBAC con la sua ricerca su La posterité spirituelle de Joachim de Flore, Dessain et Tobra, Paris 1979, in cui la concezione gioachimita è considerata come la sorgente interna alla teologia critiana della secolarizzazione stessa. Un posto di rilievo a Gioachino aveva già riservato il LOEWITH, Significato e fine ....

3K. LOEWITH, Significato e fine ..., pp. 106 e 225.

4Si veda di recente in questo senso S. NATOLI I nuovi pagani, Il Saggiatore, Milano 1995.

5G. VATTIMO, Etica dell'interpretazione, Rosenberg&Sellier, Torino 1989, p. 18. Cfr. il tema della "fine della storia" anche in A. KOJEVE, Introduzione alla lettura di Hegel (19471), Adelphi, Milano 1996 e, più superficialmente, F. FUKUJAMA, La fine della storia e l'ultimo uomo, Rizzoli, Milano 1992.
Per via epistemologica la filosofia analitica giunge ad un risultato simile, quando denuncia la liceità di ogni filosofia della storia in quanto teoria esplicativa della totalità della storia. Una considerazione filosofica della storia sarebbe in ogni caso una "filosofia sostanzialistica della storia", come si esprime A. Danto. L'idea filosofica di storia implica infatti un "significato ultimativo", cioè un riferimento ad una struttura temporale ampia tanto quanto la totalità degli avvenimenti, che è in realtà inafferrabile, perché trasgredisce la regola epistemologica della relatività dei significati a un contesto determinato. La filosofia della storia non è che "un mostro mentale, un 'centauro'" (cfr. A. DANTO, La filosofia analitica della storia, tr. it Il Mulino, Bologna 1971).

6H.G. GADAMER, Verità e metodo, a cura di G. Vattimo, Fabbri Ed., Milano 1972, p. 249.

7H.G. GADAMER, Verità ..., p. 251; Gadamer cita in proposito di J.G. DROYSEN la Historik, parr. 15 e 48.

8H.G. GADAMER, Verità ..., p. 250.

9Il termine storicità, infatti, "designa la modalità storica dell'essere proprio dello spirito umano, -afferma Gadamer- ed è stato utilizzato in questo senso per la prima volta da Dilthey e dal conte York, i quali contrapponevano la situazione storica fondamentale dell'uomo ad ogni dogmatica metafisica" (Geschichtlichkeit, in Die Religion in Geschichte und Gegenwart. Handwoerterbuch fuer Theologie und Religionwissenschaft, J.C.B. Mohr, Tuebingen 19583, II, p. 1496).

10G. VATTIMO, "Introduzione" a H.G. GADAMER, Verità..., p. XX. Cfr. recentemente l'osservazione critica di P. COLOMBO, secondo cui la proposta gadameriana appare carente di fronte all'esigenza di fornire un principio idoneo a dare unità alla storia sotto il profilo della comprensione, appunto nel momento in cui è chiamata a indicare la determinazione delle singole figure [della tradizione] nel loro rapporto alla totalità stessa" (Ermeneutica e teologia. Verità e storia in H.G.Gadamer, Glossa, Milano 1995, p. 38; l'A. riprende a sua volta le tesi di B.J. HILBERATH, Theologie zwischen Tradition und Kritik. Die philosophische Hermeneutik Hans-George Gadamers als Herausforderung des theologichen Selbstverstaendnisses, Patmos Verlag, Duesseldorf 1978). Ma, appunto -si può notare- è da discutere se Gadamer sia in grado di mantenere criticamente la categoria della "totalità" di cui pure fa indispensabile uso.

11M. ELIADE, Le mythe de l'eternel retour. Archétypes et répétition, Gallimard, Paris 1949, p. 67; cfr. Mito e realtà (1963), tr. it. Rusconi, Milano 1974, p. 102.

12"Il mito è storia vera perché è storia sacra", sottolinea R. PETAZZONI: la recitazione dei miti, cioè, partecipa degli scopi del culto, che sono la conservazione e l'incremento della vita. "Raccontare la creazione del mondo giova a conservare il mondo; raccontare le origini del genere umano giova a mantenere in vita l'umanità, cioè la comunità, il gruppo tribale; raccontare l'istituzione dei riti iniziatici e delle pratiche sciamanistiche vale ad assicurarne l'efficenza e la durata nel tempo" (Verità del mito, in "Studi e Materiali di Storia delle Religioni", 21, 1947-1948, p. 108-109); in breve, la verità del mito sta nel suo essere "tavola di fondazione" di un mondo che non può sussistere senza di esso, così come il mito non può vivere senza quel mondo (p. 113).

13K. JASPERS, Origine e senso della storia (1959), tr. it., Ed. di Comunità, Milano 1965.
Le antiche civiltà millenarie, nota Jaspers, hanno fine dappertutto col periodo assiale (cfr. civiltà babilonese, egizia, dell'Indo, della Cina primitiva); esse persitono solo per gli elementi che sono accolti nel nuovo inizio. Quei popoli, che, non possedendo grandi civiltà, non sono stati successivamente recuperati alla cultura dell'uomo assiale (come è avvenuto invece per i germani, gli slavi, i giapponesi, i malesi, i siamesi), sono rimasti "primitivi", contrassegnati cioè da una vita astorica, oppure, al contatto con una cultura d'origine assiale, si sono estinti.

14Ad esempio, l'ideale classico, ripreso, integrato e "sopraelevato" dal cristianesimo europeo, è stato il principio di più rinascimenti culturali: da quello carolingio a quello del XII secolo; da quello umanistico a quello neoclassico. Proprio in confronto al valore propulsivo dell'eredità assiale in Occidente (e a quello coesivo in Oriente) JASPERS pone il suo interrogativo angosciato sulla nostra età scientifico-tecnologica, che sembra rompere nei suoi paradigmi con la cifra dell'uomo assiale e dunque con l'autentica universalità della cultura (cfr. Origine ... , pp. 129-131).
Da questo punto di vista si potrebbe considerare l'ecumenismo religioso contemporaneo (insieme con tutte le sue anticipazioni moderne a partire da Nicolò da Cusa) come tentativo delle tradizioni religiose di origine assiale di ritrovarsi e ridefiniri in rapporto allo pseudo-umanesimo tecnicistico e alla sua deriva nichilista.

15Sulla mistica "naturale" indiana cfr. le profonde pagine di J. MARITAIN, L'esperienza mistica naturale e il vuoto, in Quattro saggi sullo spirito umano nella condizione di incarnazione (1956), tr. it. Morcelliana, Brescia 1978, pp. 103-136.

16SANKARA, Introduzione al Commento sugli Aforismi del Brahaman, cit., in O. LACOMBE, Indianité. Etudes historiques et comparatives sur la pensée indienne, Les Belles Lettres, Paris 1979, p. 21.

17Cfr. O.LACOMBE, Indianité, pp. 99 e 154-157 e L. GARDET-O. LACOMBE, L'esperienza del sé. Studio di mistica comparata, tr. it. Massimo, Milano 1988, capp. 1 e 2.

18Cfr.H.C. PUECH (a cura di), Storia del buddhismo, tr. it. Mondadori, Milano 1992; K. MIZUNO, I concetti fondamentali del buddhismo, Cittadella, Assisi 1990.

19Cfr. PLATONE, Teeteto, 176.

20Cfr. PLOTINO, ENNEADI, VI, 9, 11.

21Cfr. P. VEYNE, Come si scrive la storia. Saggio di epistemologia, tr. it. Laterza, Bari 1973.

22Cfr. S. NATOLI, Telos, skopos, eschaton. Tre figure della storicità, in "Il Centauro", 5 (1982), pp. 3-44.

23Cfr. A. MOMIGLIANO, La storiografia greca, Einaudi, Torino 1982 e S. MAZZARINO, Il pensiero storico classico, Laterza, Bari 1983.

24H. Ch. PUECH, La gnose et le temps, in "Eranos-Jahrbuch", XX (1951), p. 87.

25H. Ch. PUECH, La gnose..., p. 103.

26Cfr. A. ORBE, La Uncion del Verbo, in Estudios Velentinianos, III, Università Gregoriana, Roma 1961; H.I. MARROU, La théologie de l'histoire dans la gnose valentinienne, in Le origni dello gnosticismo, a cura di U. BIANCHI, Brill, Leiden 1967, pp. 215-226; G. FILORAMO, L'attesa della fine. Storia della gnosi, Laterza, Roma-Bari 1987.

27Cfr. J. MOUROUX, Il mistero del tempo. Indagine teologica, tr. it. Morcelliana, Brescia 1965, pp. 19-20.

28Sal. 111, 1 (cfr. 127, 1: "beato l'uomo che teme il Signore e cammina nelle sue vie"); Lc., 1, 45.

29I Cor., 7, 29 e Ap. 5, 1-10

30E' ciò che Hegel ha capito in profondità: si dà storia, se è possibile totalizzare il senso dell'accadere; ma la totalizzazione del senso necessita la ricomprensione del negativo. In sintesi, condizione di possibilità della storia è l'accadere della "riconciliazione" (Versoehnung). In questo Hegel e s. Paolo coincidono; diverso è il luogo della riconciliazione: per Hegel la dialettica dello Spirito, per Paolo l'uomo Gesù: "scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani" (I Cor., 1, 23).

31GREGORIO di NISSA, Hom. in Cantic., P.G. XLIV, 1043 B.

32Gv., 12, 32. Si noti di sfuggita l'impressionante assonanza di questa dichiarazione con la antica definizione del bene trasmessaci da Aristotele, come il "quod omnia appetunt" (cfr. Etica nicomachea, I, 1, 1094a 2). Ma sorprendentemente il bene che tutto attrae si presenta in Cristo come identità del suppliziato sfigurato e del risorto glorioso: il bene fondamento e fine, attrazione e compimento della storia umana è concretamente la persona di Gesù che redime nella sua "gloria" la "maledizione" del mondo.

33Cfr. Rom. 5, 14; I Cor., 10, 6 e I Pt., 3, 21.

34Mt., 10, 34.

35In Mt., 25, 31 sgg. dal "trono della sua gloria" il Figlio dell'uomo pone la misura del valore di ogni azione: "ogni volta che avete/non avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete/non avete fatto a me", così che il segno positivo/negativo del compimento destinale di ciascuno è determinato da un rapporto di misericordia esaudito/mancato, cioè dalla partecipazione realizzata/fallita alla "filantropia" divina dispiegata nella vita del Figlio dell'uomo.

36E' il tema paolino della "sovrabbondanza" di grazia redentrice che è "molto più" potente della corruzione del peccato (cfr. Rm. 5, 15-17).
Quanto, invece, alla rappresentazione del corso storico non bisogna dimenticare gli elementi di linearità presenti nella cultura pagana, come ad esempio nella concezione virgiliana dell'Eneide, e quelli di ciclicità contenuti nella teologia veterotestamentaria, come nel caso del Qoèlet.

37Osserva in proposito E. VOEGELIN che, come già aveva compreso G.B. Vico, "ogni civiltà possiede sicuramente il suo mito" e perciò come l'apice di una civiltà è raggiunto "quando il mito viene compreso dalla speculazione razionale", così una civiltà declina "con l'esaurirsi e il dissolversi del suo mito" (La "scienza nuova" nella storia del pensiero politico, A. Guida Editore, Napoli 1996, p. 77).

38Cfr. W. PANNENBERG, Questioni fondamentali di teologia sistematica, tr. it. Queriniana, Brescia 1975.

39Cfr. E. CALLOT, Les trois moments de la philosophie théologique de l'histoire. Augustin, Vico, Herder - Situation actuelle, La Pensée Universelle, Paris 1974, p. 296.

40Cfr. su questo i già citati K. LOEWITH, Significato e fine ... e H. DE LUBAC, La posterità spirituale ...; ma anche H. MOTTU, La manifestazione dello Spirito secondo Gioacchino da Fiore. Ermeneutica e teologia della storia secondo il "Trattato sui quattro Vangeli, tr. it. Marietti, Torino 1983, p. 57. L'Autore modera questa interpretazione nel successivo intervento Joachim de Fiore et Hegel in AA.VV., Storia e messaggio in Giocchino da Fiore, Centro di Studi gioachimiti, S. Giovanni in Fiore 1980, pp. 151-175.

41E' questa la conclusione anche di V. MANCUSO, Hegel teologo e l'imperdonabile assenza del "Principe di questo mondo", Piemme, Casale Monferrato 1996: "la storia hegelianamente intesa diviene [...] l'escatologia pienamente realizzata. In essa non si assiste a nient'altro che alla manifestazione della grandezza e dell'onore divino. E scompare ogni bisogno di al di là" (p. 387).

42Questo è anche il giudizio a partire dal quale si delineano filosofie della storia come quelle di Benjamin, Adorno e Bloch. La proposta però della micrologia benjaminiana, della negatività adorniana e dell'utopismo blochiano, nella loro inconclusa drammaticità, sono testimonianze dell'impossibilità di sfuggire, in ultima istanza, all'alternativa tra soteriologia positiva e nichilismo (come già ha osservato G. VATTIMO Dialettica, differenza, pensiero debole, in Il pensiero debole, a cura di G. Vattimo e P.A. Rovatti, Feltrinelli, Milano 1983, pp. 17-18).