Per una teoria liberale del bene comune

'Inattualità' del tema del bene comune

Il tema del bene comune appare difficilmente accettabile alla contemporanea mentalità socio-politica. La sua forte connotazione assiologica, infatti, contrasta con la metodologica separazione di etica e politica che caratterizza il pensiero politico moderno. D'altra parte, anche là dove -come nella contemporanea corrente della cosiddetta "riabilitazione della ragion pratica"- si è disposti a rivedere tale separazione, in virtù di una rinnovata consapevolezza della natura etico-pratica e non meramente tecnica, della politica, la dottrina del bene comune sembra difficile da accettare nell'attuale contesto socio-culturale: il suo stesso concetto sembra appartenere all'arsenale teorico di una "etica sostantiva" forte, impegnata con una determinata concezione del bene umano, che come tale non può essere posta a fondamento di società irreversibilmente pluralistiche.

D'altra parte è evidente la difficoltà entro cui si muove la contemporanea filosofia politica, che sembra aver definitivamente abbandonato l'utopia comunista di una socialità vissuta a prezzo della libertà dei più in funzione dell'acquisto futuro della libertà per tutti. E' crollato il mito, ma meglio sarebbe dire la parvenza ideologica di quella che è sempre stata un'assurdità logica e antropologica: l'idea di una società autoritaria produttrice di libertà . Ma non per questo la tradizione liberale, che dopo tale fallimento ha ripreso vigore e autorevolezza, si presenta esente da problemi. Benché fortemente rinnovata e scaltrita, essa ripropone in vario modo il suo originario assioma dell'individualità separata che per via di procedure o di convenzioni negozia una convivenza in cui proteggere e favorire, in modo più o meno solidale, la sua autonomia.

In ciò fa problema la capacità di porre con la debita radicalità il problema politico come tale, quello cioè della fondazione della umana convivenza ordinata. Da questo punto di vista, invece, il liberalismo, pur con i suoi meriti storici e teorici, è la formulazione più suggestiva e diretta della crisi della politica nel pensiero moderno. Il suo individualismo, comunque connotato e mitigato, infatti, esprime con precisione la difficoltà, simmetrica a quella del mito comunista, di una libertà individualistica che dovrebbe essere in grado di produrre socialità . Una certa socialità bisogna pur ammettere che sia in grado di produrre, ma si tratta però e necessariamente di una relazione in varia misura funzionale agli interessi dell'individuo e come tale sempre di principio revocabile. La socialità liberale è fondamentalmente un prodotto, forse una protesi della precaria esistenza del singolo, non è, cioè, una condizione originaria dell'individuo stesso.

Estrinsecismo sociale che mal si giustifica nei confronti della riflessione antropologica contemporanea che per varie e convergenti vie scopre sempre di più l'originaria intersoggettività del soggetto umano: sia per il bisogno psicologico profondo del riconoscimento identificante (Sartre), sia per l'appartenenza già sempre predisposta ad una tradizione linguistica (Gadamer), sia per il dinamismo vincolante dell'interlocuzione dialogica (Jacques) o della comunicazione pragmatica (Apel), sia per l'esperienza elementare del senso etico (Lévinas), sia per il costituirsi stesso del soggetto sociale, come obbiettano direttamente ai "liberali" i "comunitari" 1 .

Certamente il liberalismo politico non pretende d'essere una antropologia e neppure una filosofia politica, bens­ì, piuttosto, un metodo politico; però è indiscutibile che il punto di partenza metodologico non può essere neutrale. Soprattutto non può non prendere posizione sulla questione politica fondamentale, di cui già si diceva: se cioè il legame politico sia qualcosa di prodotto o di dato; sia un espediente per l'inevitabie convivenza oppure un vincolo interiore del soggetto umano.

Tutta la grande tradizione politica premoderna vive di quest'ultimo assunto, senza per questo dover ricadere, come è il caso di Platone, nella figura politica del comunitarismo comunistico. La teoria del "bene comune", che riceve da Tommaso d'Aquino una paradigmatica formulazione a partire da decisivi elementi del pensiero aristotelico, costituisce il tentativo più articolato di pensare la comunanza politica originaria non come alternativa all'autonomia del singolo, ma piuttosto come esplicitazione e regolazione dell'agire sociale della persona umana. Tommaso così cerca di sintetizzare in una figura originale l'antica concezione politica del soggetto con la nuova sensibilità cristiana per la sua irriducibilità e indipendenza. La concezione tommasiana del bene comune costituisce così, obbiettivamente, cioè al di là del suo contemporaneo oblìo, un cespite interessante per pensare un modello liberale del politico sottratto all'ipoteca e alle difficoltà dell'individualismo.

Per scoprire una possibile attualità del discorso tommasiano sul "bene comune" è necessario, perciò, uscire dallo scontato e tentare di recuperarne le più profonde motivazioni, allo scopo di istituire un confronto non pre-giudicato.

 

La filosofia tommasiana del bene

Non è possibile comprendere il discorso tommasiano sul bene comune senza inquadrarlo nella sua complessiva dottrina del bene. Non avrebbe senso parlare di bene comune, se non si riconoscesse uno statuto significativo al "bene". Per Tommaso il bene non è anzitutto un apprezzamento soggettivo, ma un modo d'essere, anzi una relazione che tutte le cose intrattengono con la perfezione, il compimento realizzativo di cui hanno bisogno.

Dal punto di vista fenomenologico la bontà delle cose si rivela per il fatto che esse tendono ad un fine loro conveniente: il bene di una cosa è il suo fine, in cui essa raggiunge una perfezione nuova, cioè un incremento del suo essere conforme alla sua natura. Questo rilievo fenomenologico sembra indiscutibile. Fa problema, invece, il fatto che Tommaso lo elevi al rango di una concezione ontologica secondo cui, non solo alcune cose nella maggior parte delle circostanze sembrano tendere al loro bene, ma di necessità tutte le cose tendano al meglio. Tale passaggio è giustificato dalla connessione della teoria tommasiana del bene con la sua teleologia o teoria del fine, per cui vale con assoluta universalità che "ogni agente agisce per un fine". E, siccome ogni cosa a suo modo esercita un'attività, ogni cosa esiste instaurando una relazione a ciò che la perfeziona (fine conveniente), che in quanto tale è per essa buono. Così, come è vero che tutto agisce per un fine, così è vero che tutto agisce per un (proprio) bene.

La filosofia moderna ha opposto tutte le sue argomentazioni contro il teorema della finalità. Eppure l'argomento di Tommaso è lineare e soprattutto indiscutibile per l'agire umano: l'azione umana può costituirsi solo in rapporto a un termine determinato che la attrae (fine) e l'attrazione è di principio in forza di qualcosa che dà un compimento nuovo all'agente (bene) 2 .

Ciò non significa che tutto ciò che viene operato sia in tutti i casi, di fatto, per il bene dell'agente: gli errori operativi a tutti i livelli esistono, ma per quanto estesi e carichi di conseguenze, non possono essere ammessi come di principio conformi alla natura dell'agire stesso, la quale, invece, è indirizzata come tale al bene.

Risulta da questo orientamento dottrinale che il bene è qualcosa di strutturale e che l'operare per esso è fondamentale necessità per ciò che esiste ed esistendo agisce: la visione tommasiana della realtà, senza nulla perdere di realismo quanto alla efficacia del male e del peccato, è improntata ad una positività dinamica secondo cui l'esistente necessariamente opera e che, per quanto possa essere fattualmente sopraffatta, non può mai essere definitivamente travolta.

Ora, per quanto una tale teoria possa risultare estranea alla nostra sensibilità contemporanea, abituata ad un certo primato irrazionalistico del negativo, non se ne può non apprezzare la forza e la profondità delle ragioni, insieme con la risultanza straordinariamente vivace di una concezione per la quale tutta la realtà è sostenuta e qualificata dalla tensione alla sua autoaffermazione e al suo perfezionamento.

 

La necessità del bene comune

L'aggiunta dell'aggettivo "comune" al sostantivo delimita la prospettiva, peraltro ancora generalissima, entro cui si attua l'ontologia del bene. Tale prospettiva è quella che si potrebbe chiamare degli enti collettivi, cioè di ogni entità che costituisce un "tutto", una molteplicità operativa unificata secondo un suo ordine interno. Ogni realtà collettiva, infatti, ha un suo bene comune, che è costituito dal bene/fine che gli è per natura conveniente e che costituisce il suo scopo necessario. In questo senso anche il "bonum commune" è per Tommaso una nozione analogica che si realizza diversamente a seconda del livello o del tipo di realtà presa in considerazione. La nozione più vasta di bene comune è quella dell'universo creato preso nel suo complesso, il cui bene comune è Dio stesso, fine perfettivo della sua creazione. Bene comune è poi quello della comunità politica, in quanto totalità che risulta dal complesso di operazioni dei suoi componenti; similmente si deve parlare di un bene comune di ogni realtà sociale minore, fino a quello della famiglia.

La riflessione sul "bonum" ci permette di capire è l'affermazione fondamentale secondo cui la finalità comune di una totalità organizzata non è un'opzione arbitraria, ma una necessità costitutiva del tutto considerato, senza di cui quel tutto non potrebbe sussistere, perché non potrebbe agire, cioè esistere secondo il suo dinamismo proprio.

 

I caratteri della "civitas"

Per Tommaso, in pieno accordo con Aristotele, la "civitas" o "communitas civitatis", è un "opus rationis", cioè un'opera della ragione che, assecondando la naturale inclinazione umana alla socialità, la assume coscientemente, le dà forma storicamente determinata e ha il compito di gestirla razionalmente. La società umana non è un prodotto della natura, né tantomeno una "cosa" già costituita con cui l'uomo abbia a che fare, ma è un complesso stratificato di operazioni, che trova la sua unità appunto nel bene comune che essa in qualche misura non può non perseguire, pena il dissolversi come totalità operativa.

Dunque una concezione per nulla arcaica della società umana, bensì relazionale e dinamica, secondo cui, come dice Tommaso commentando creativamente Aristotele, "la ragione umana ha da disporre degli stessi uomini, [...], quando ordina molti uomini in una certa comunità"3
. E tale ordinamento può avvenire solo a condizione che si miri a un bene che dia senso, cioè significato, direzione e scopo, all'azione comune di cui la società umana è costituita. "Tutte le comunità (umane) -dice ancora Tommaso nel suo commento alla Politica aristotelica- hanno di mira un certo bene (coniectant aliquod bonum), cioè sono tese a un qualche bene come fine" 4 .

La comunità politica, poi, è quella comunità, più ampia e comprensiva di altre, che è caratterizzata dall'essere istituita allo scopo di garantire la "sufficientia vitae" dei suoi membri. Essa cioè non nasce volontaristicamente, ma per far fronte al bisogno fondamentale e ampio della sopravvivenza degli uomini, cioè alla conservazione della loro vita fisica e allo sviluppo della loro esistenza secondo le sue istanze propriamente umane.

Siamo qui di fronte ad un concetto funzionale assai interessante, che non definisce in modo statico la realtà sociale, ma appunto operativo e quindi storicamente variabile: quello che può essere "sufficiente" per l'umana convivenza in un certo assetto socio-economico e storico può essere insufficiente in un altro. Se la comunità politica necessaria alla "sufficientia vitae" al tempo di s. Tommaso poteva essere il "regnum", successivamente poteva esserlo lo stato su base nazionale, per divenire oggi, probabilmente, una struttura bipolare tesa tra la comunità internazionale planetaria e le localizzazioni regionali dell'organizzazione sociale.

In tutti i casi per Tommaso la "civitas" mira al "al più importante (principalissimum bonum) tra i beni umani", riassuntivo di molti beni umani, perché indirizzato a realizzare quelle condizioni di vita senza di cui nessun individuo potrebbe sopravvivere in modo umanamente degno; e per questo la "communitas politica est communitas principalissima", comprensiva in sé di tutte le altre comunità minori 5 . Di conseguenza essa ha il diritto-dovere di subordinare a sé le altre comunità, non sostituendosi ad esse -cosa che contradirrebbe la natura della comunità politica stessa- ma armonizzandole allo scopo comune, che è cercato non a danno ma a vantaggio di ogni parte del tutto sociale. Questo insegnamento di Tommaso è costante: la comunità politica persegue un fine che la rende oggettivamente sovrastante tutti i fini particolari, senza per questo ridurli od eliderli, ma anzi rispettandoli nella loro specifica diversità e subordinandoli a sé per quegli aspetti per cui essi rientrano nell'ambito dell'interesse comune 6 .

La ragione per cui questo insegnamento tommasiano non è né individualistico né collettivistico sta nel fatto che Tommaso non mette sulla stessa linea, cioè entro lo stesso genere, il bene del tutto e il bene delle parti, siano esse comunità minori o il singolo stesso. Dice infatti che "il bene comune e il bene singolare di una persona non differiscono solo secondo il molto e il poco, ma secondo una differenza formale" 7 . Per questo i diversi livelli di bene sono davvero distinti e irriducibili e il bene comune non può riassorbirli in sé; d'altra parte, in quanto il bene totale è composto dai beni particolari, questi possono e debbono essere regolati dal fine più ampio del tutto politico. Tale regolazione, dunque, non è una subordinazione univoca, ma consiste nell'ordinamento operato dal fine ultimo sociale nei confronti di quegli aspetti dei diversi beni della persona e delle comunità particolari che sono funzionali al tutto 8 . Persona e comunità particolari, insomma, né sono semplicemente indipendenti, né sono promanazioni del tutto socio-politico, ma conservano la loro autonomia, regolata però dalle esigenze del tutto per quegli aspetti per cui esse sono funzionali al tutto e il tutto è a loro funzionale.

Suggestivi in proposito risultano due testi tommasiani relativi all'individuo personale, ma analogicamente applicabili alle comunità particolari: "ogni persona individuale si riferisce all'intera comunità come la parte al tutto" e "l'uomo non è ordinato alla società politica secondo tutto se stesso e secondo tutto ciò che è in lui", dal momento che, piuttosto, "tutto quello che l'uomo è, che può e che ha, è ordinato a Dio" 9 . Sono testi che risulterebbero contraddittori, se non avessero prospettive formali diverse: l'uomo in quanto persona ha la sua finalità totalizzante nel rapporto con Dio, ma in forza della sua natura sociale egli è anche finalizzato alla costruzione sociale comune, a cui è ragionevole che sia ordinato tutto ciò che della persona la riguarda. Analogamente, si può dire per le comunità minori, che, benché non possiedano una personalità propria trascendente la totalità politica, debbono poter sussistere nella loro individualità e debbono insieme contribuire alla vita del tutto.

Certo i rapporti tra singoli, comunità particolari e comunità politica non sono rapporti facili da gestire nel concreto della vita storica; anzi, sono luoghi destinati ad una facile tensione; ma già la precisazione teorica del loro statuto serve ad evitare la conflittualità distruttiva e a costruire tentativi di integrazione produttiva.


Il bene comune come "forma" e come "contenuto"

E' tempo di precisare in che cosa consista il fine comune di una società politica. Finora se ne è data una definizione formale, che ne ha rivelato la necessità strutturale, ma ancora non è emersa l'indicazione di un suo possibile contenuto. Da ciò che Tommaso ne dice, in specie nel De Regimine Principum, si può trarre un'utile indicazione sintetica, là dove egli afferma che "allo scopo di istituire la buona vita della moltitudine sono necessarie tre cose": che il popolo "sia costituito nell'unità della pace"; che essa "unita dal vincolo della pace, sia condotta ad agir bene"; infine, che "per la cura del governante sia apprestata una sufficiente ricchezza di beni necessari per il ben vivere" 10 . Vi sono dunque dei beni d'ordine generale che vengono a costituire dei contenuti del bene comune di qualunque società politica, che sono imprescindibili perché sono fini senza perseguire i quali essa non può costituirsi e sussistere.

Di qui è facile trarre l'osservazione che il bene comune tommasiano ha un aspetto formale e uno materiale o contenutistico. Dal punto di vista formale esso è, dunque, -come scrire R. Simon- "l'ordine che coordina, concilia fra di loro i diversi beni e li orienta verso la costituzione di un ambiente favorevole allo sviluppo della persona umana. Il bene comune considerato formalmente è dunque questa stessa organizzazione". Preso, invece, nel suo aspetto materiale esso è "l'insieme dei beni necessari alla vita umana", molteplici e di varia natura (economici, giuridici, istituzionali, culturali, morali, spirituali) 11 .

Così, se dal punto di vista formale il bene comune è scopo unitario, dal punto di vista materiale esso è molteplice ed esige perciò un'attenta articolazione e realizzazione. La complessità contenutistica del bene comune tommasiano fa ben vedere che esso non è affatto riducibile ad una categoria morale, dal momento che comprende indisgiungibilmente beni d'ordine strettamente politico (pace) e beni d'ordine economico (benessere), oltre a quelli d'ordine etico. Tanto che si potrebbe dire che, in ultima istanza, il bene comune non è che il bene della comunità come tale, cioè è la comunità stessa come bene, in quanto attuata nell''insieme delle sue dimensioni costitutive.

Su questa base diventa possibile confrontare il discorso politico tommasiano con le dottrine moderne e scoprire che la vera differenza non è che Tommaso usi del moralistico criterio del bene comune a differenza dei criteri propriamente politici dei moderni, ma che a fronte del complesso e comprensivo criterio tommasiano sta, in genere, nei moderni un criterio semplice o semplificato: non ha la vita politica in Hobbes lo scopo di evitare il male della morte violenta e di preservare la pace, negli utilitaristi la realizzazione del benessere, in Hegel la vita etica?

D'altra parte, l'unità complessa del bene comune tommasiano è intrinsecamente aperto alla dimensione storica. Infatti, la generalità dei contenuti indispensabili per la convivenza esige una loro costante interpretazione in funzione della loro traduzione politica: che cosa significa nel concreto di una congiuntura storica operare per la pace, il benessere e la moralità di una società? O, ancora, quali sono i confini tra autonomia della persona e delle comunità minori e loro funzionalità al tutto politico? Anche quest'ultimo, infatti, ha un profilo etico-giuridico mobile, perché altro è la reciprocità funzionale tra tutto e parti sociali in tempo di guerra e in quello di pace, in tempo di ricchezza e in quello di penuria o, più normalmente, nel variare delle capacità tecniche, delle strutture economiche e delle esigenze sociali.

I beni fondamentali sono, dunque, criteri di valore vincolanti, ma esigono insieme la loro mediazione politica: si apre qui il vasto campo dell'azione politica in senso stretto, con il suo portato di interpretazione, di interesse di parte, di conflitto.

Qui si delinea anche il potenziale spazio tommasiano per il pluralismo politico. La necessità ermemeutica del bene comune legittima la molteplicità interpretativa di parte. Tra bene comune a interessi di parte, infatti, non c'è essenziale contraddizione. E' inevitabile, invece, che sulla base dei diversi interessi economici, sociali, culturali si diano diverse letture del bene comune e quindi diversi programmi e diverse strategie politiche, che sarà poi compito dell'opera politica stessa comporre, secondo procedure concordate, in una sintesi mirata al bene comune riconosciuto. Non è dunque l'interpretazione 'di parte' del bene comune ciò che lo minaccia, ma la sua riduzione al "bonum privatum", cioè la sua mancata o finta mediazione politica, che pretende in modo fraudolento che un interesse partigiano sia elevato a interesse di tutti.


Ethos e bene comune

La natura ontologica del bene comune -il suo essere necessaria finalità dell'agire comune- non toglie che esso, essendo opera della ragione, sia affidato alla libertà morale dei soggetti politici. La progettualità del bene comune è così ad un tempo necessaria e libera e, in quanto libera, è oggetto di dovere e di scelta morale. La moralità politica sta perciò nel perseguire deliberatamente il bene comune del tutto politico; più concretamente, da parte di chi è parte a qualche titolo di una comunità politica, sta nel ricercare e nell'accettare l'armonizzazione dei propri interessi con le esigenze del bene totale.

Chi, invece, ha il compito istituzionale di provvedere direttamente al bene comune, preservandone l'istanza, cercandone la fisionomia storicamente determinata attraverso la composizione degli interessi e la valutazione delle risorse e curandone, infine, il perseguimento operativo, è l'autorità politica. La cura del bene comune è l'invariante identificatoria di tale autorità, il cui profilo giuridico- istituzionale può variare: classicamente Tommaso riconosce validi a vario titolo i regimi democratico, aristocratico e monarchico. Mentre la loro degenerazione -rispettivamente demagogica, oligarchica e tirannica- avviene appunto quando in un certo "regime politico [...], disprezzato il bene comune della moltitudine, si cerca il bene privato dell'autorità" 12 .

Nella concezione tommasiana, infatti, l'autorità politica non ha giustificazione in se stessa, perché essa gestisce il potere in nome della stessa "multitudo". Scrive Tommaso che "ordinare qualcosa al bene comune è compito o di tutta la moltitudine oppure di qualcuno che la governa al posto di tutto il popolo (gerentis vicem totius multitudinis"); infatti, "ordinare al fine è cosa propria di colui del cui fine si tratta" 13 .

Tale ordinamento al bene comune avviene attraverso la legge giuridica: come afferma Tommaso, "la legge propriamente, per prima cosa e principalmente (proprie, primo et principaliter; si noti la triplice accentuazione) tratta l'ordinamento al bene comune" 14 . L'ordinamento del tutto politico al bene comune non è, dunque, uno dei compiti della legge, ma il suo compito identificante, come risulta dalla definizione tommasiana della "lex humana": "un certo ordinamento razionale (ordinatio rationis) al bene comune, promulgato da colui che ha la cura della comunità" 15 .

In tutto questo contesto Tommaso non parla di "ethos" o di suoi equivalenti in modo esplicito. Eppure il riferimento ad esso appare presente e significativo nella sua riflessione sul rapporto tra "lex" e "consuetudo". Già si può osservare che per quanto detto il compito di stabilire le leggi ("condere legem") spetta a tutto il popolo ("tota multitudo") oppure alla "persona publica" che ha cura del tutto politico 16 . E' compito, cioè, della stessa totalità politica o di chi, prendendosi cura del suo fine, ne è una sorta di gerente vicario. In altri termini il compito originario del governo appartiene allo spontaneo e inevitabile patrimonio della moltitudine politica con le sue leggi consuetudinarie e, più ampiamente, con il suo ethos morale e politico, secondo cui essa vive da sempre la sua politicità.

Tommaso, infatti, è ben consapevole con Aristotele del fatto che le leggi sono sostenute dalla "consuetudo", sia in quanto la consuetudine precede la legge, sia perché la legge promuove consuetudine. Per questo, secondo Tommaso, la consuetudine radicata nel popolo può farsi interprete delle leggi esistenti oppure può avere essa stessa vigore di legge, fino ad arrivare a sostituire legittimamente (entro i limiti della legge naturale e divina) la stessa legge in vigore 17 .

Ora, se si pensa che per Tommaso la legge ha il compito di ordinare la vita socio-politica al bene comune, alla consuetudine può essere riconosciuto valore legislativo perché le viene riconosciuto la funzione di promuovere del fine politico. Ciò conferma il primato del bene comune nella vita politica secondo Tommaso: il fine della comunità politica non attende un legislatore per essere principio attivo del tutto, perché già la consuetudine può indirizzarne la vita. D'altra parte, l'opera politica resta realizzazione della ragione e quindi il costume è sottoposto di principio al suo controllo e non può avere valore di legge se non è in accordo con i superiori criteri della "legge naturale" e della "legge divina".


Per l'attualità del bene comune

Per l'ampiezza della sua prospettiva la concezione tommasiana della politica offre delle significative possibilità di confronto con tipiche posizioni contemporanee, di cui accoglie le istanze, ma di cui insieme definisce i limiti. Con il liberalismo rigoroso, tipico ad esempio della Scuola austriaca (von Mises, von Hayek), Tommaso si incontra sulla originaria insostituibile iniziativa dei concreti attori sociali. Ma di essa non può accettare che non si dia, né a livello conoscitivo, né a livello pratico, un bene complessivo della comunità politica, che non richieda un'azione specifica, non puramente burocratico-amministrativa, da parte di un'autorità centrale.

Con il proceduralismo neoliberale alla Rawls Tommaso concorda nel ritenere che la vita politica non possa essere fondata sulla condivisione di un'"etica sostantiva", ma si articoli in procedure secondo criteri di giustizia. Tale giustizia però non può dipendere da astoriche valutazioni, ma dal perseguimento economico, etico e politico della realizzazione della comunità stessa degli uomini, secondo criteri che si definiscono sul fondamento della natura della società umana come tale e, insieme, sulla base della concreta circostanza storica.

D'altra parte, il comunitarismo contemporaneo alla MacIntyre neppure sembra davvero conforme al pensiero di Tommaso, cui pure si richiama, perché eleva la tradizione come tale a criterio ermeneutico e assiologico, mentre, ancora una volta, per Tommaso è la comunità politica, secondo le sue esigenze di unità, benessere e bontà morale, che costituisce il criterio di giudizio più alto, rispetto agli altri elementi costitutivi della vita socio-politica; siano questi l'iniziativa economica, le procedure o le tradizioni.

Ma è soprattutto con il liberalismo contemporaneo che è interessante, come si diceva all'inizio, far interloquire la posizione tommasiana, appunto perché essa già contiene forti elementi di liberalismo metodologico.

D'altra parte la concezione dell'Aquinate offre anche un significativo punto di vista per la critica all'"individualismo presupposto" del liberalismo storico, perché permette di vederne con chiarezza l'irresolubile difficoltà. Il punto di partenza di questo, infatti, può essere formulato con un interrogativo fondamentale: come debba essere ordinato il potere politico per salvaguardare e promuovere l'autonomia dei singoli. In altri termini il politico è pensato in funzione del singolo. D'altra parte, se l'autonomia del singolo viene proposta in una versione forte, la presunta neutralità metodologica del liberalismo, rischia fortemente di rovesciarsi in una forma paradossale di intransigentismo: l'autonomia in senso individualistico diventa un forte criterio di valore che discrimina impostazioni e scelte del potere pubblico, dando luogo a forme di intolleranza nei confronti di quanti non condividono un'idea della libertà come arbitrio della scelta. Se, invece, l'autonomia del singolo è assunta in forma debole, è inevitabile la critica -di cui i "Communitarians" americani sono la voce più recente- che nota sia la contraddittorietà di tale assunzione sia la sua inefficienza ai fini dello stesso sistema liberale. Un criterio debole di autonomia significa, infatti, integrazione del valore della pura liberta con l'assunzione di beni minimi, ritenuti indispensabili alla conviveza politica, contro l'assunto della neutralità delle procedure liberali; mentre, d'altra parte, il minimalismo di tali beni, per la loro debolezza assiologica, minaccia la capacità sociale di interiorizzare e sostenere praticamente gli impegni richiesti dallo stesso "liberal way of life" 18 .

La teoria tommasiana del "bene comune" permette un rovesciamento della prospettiva, che elimina in radice il problema creato dal presupposto della "neutralità" delle procedure liberali. Essa, infatti, suggerisce di guardare la realtà politica a partire dalla necessaria finalità politica comune. Tale finalità, come si è detto, né preesiste ai concreti soggetti politici, né è prodotto di soggeti prepolitici e, quindi, né si impone con valori già costituiti, né risulta da una contrattazione dei valori. Essa invece è la condizione della cooperazione dei soggetti, che non possono non riconoscere certi fini-valori molto generali e ancora formali, quelli economici, politici ed etici che costituiscono il contenuto orientativo del bene comune stesso. L'azione politica perciò presuppone inevitabilmente il perseguimento di tali beni, evitando lo pseudo-problema di un neutralismo impossibile.

Ciò che salva, d'altra parte, il pluralismo delle libertà è che il passaggio dal loro riconoscimento di principio alla loro concretizzazione storico-politica è affidato al dibattito culturale e alla determinazione istituzionale tramite consenso proceduralmente regolato. La libertà è dunque in gioco ad ogni livello, sia a quello fondamentale della partecipazione cooperativa, per la quale si riconosce la necessità di perseguire il bene comune del tutto, sia a quello della proposta delle diverse posizioni culturali e politiche, sia, infine, a quello dell'accettazione della risoluzione democratica del confronto e del conflitto.

Né il valore dell'autonomia è con ciò riassorbito nell'impresa politica comune, dal momento che la cooperazione per il bene della totalità definisce solo l'area dell'etica pubblica del soggetto, che permane chiaramente distinta, anche se non separata, da quella privata: il criterio del bene comune è un'idea liberale, perché in esso il soggetto è tutto impegnato, ma ad esso non è ordinato "secondo tutto se stesso e secondo tutto ciò che è in lui".


1Cfr. J.P. Sartre, L'essere e il nulla, tr. it., Il Saggiatore, Milano 1964 e Il filosofo e la politica, tr. it., Editori Riuniti, Roma 1965; H.G. Gadamer, Verità e metodo, tr. it., Bompiani, Milano 1983; F. Jacques, Différence et subjectivité, Aubier Montaigne, Paris 1982; K.O. Apel, Etica della comunicazione, tr. it., Jaca Book, Milano 1992; E. Lévinas, Totalità e infinito. Saggio sull'interiorità , tr. it., Jaca Book, Milano 1982; e per il dibattito tra liberali e comunitari si veda AA.VV., Concezioni del bene e teorie della giustizia, a cura di G. Dalle Fratte, Armando, Roma 1995.

2Cfr. per le argomentazioni tommasiane in particolare Summa contra Gentiles, l. III, c. 2 "Ogni agente agisce per il fine" e c. 3 "Ogni agente agisce per il bene".

3Sententia Libri Politicorum, (ed. leonina) I prol. l. 17-18, 21-22.

4Sententia Libri Politicorum, I, l. 9-10.

5Cfr. Sententia Libri Politicorum, I, 1, l. 24-26.

6Si noti che i criteri di "solidarietà" e di "sussidiarietà", secondo la dizione della successiva Dottrina sociale della Chiesa, sono inclusi nella corretta nozione di "bene comune".

7Summa theologiae, II-II, q.58 a.7 ad II; è significativo che il proseguio del testo esemplifichi con una citazione di Aristotele che non parla del rapporto tra comunità politica e persona, ma tra la "civitas" e la famiglia, cioè una comunità minore.

8Giustamente A. Modde fa notare che "ordinatus" nel latino di Tommaso non significa subordinato, ma "bene proportionatus", "congruens": l'ordinamento del bene particolare al bene comune significa opportuna disposizione, armonizzazione della parte con il tutto (Le bien commun dans la philosophie de Thomas d'Aquin, in "Revue de Philosophie de Louvain", 14, 1949, p. 246).

9Summa theologiae, II-II, q.64, a.2, e I-II, q.21, a.4, ad III.

10De Regimine Principum, I, 15, p. 15 (ed. Marietti, Torino 1971 II ed.).

11R. Simon Morale. Filosofia della condotta umana. tr. it. Brescia 1966, pp. 252-253. Cfr. anche A. Da Re-F. Ghedini, "Sul concetto del bene comune", in Etica e politica. La prassi e i valori, Padova 1989, pp. 195-219.

12De regimine principum, I, 3, 29-30, pp. 452.

13Summa theologiae, I-II, q.90, a.3.

14Ibidem.

15Summa thieologiae, I-II, q.90, a.4.

16Summa theologiae, I-II, q.90, a.3.

17Cfr. Summa theologiae, I-II, q.97, a. 2 ad I; a.3 (quest'ultimo conclude, affermando che "la consuetudine ha sia valore di legge, sia abolisce la legge, sia è interprete della legge, legum interpretatrix") e a.3 ad I.

18Prendo queste riflessioni sull'antinomia tra concezione "forte" e debole" dell'autonomia in senso liberale da M. Rhonheimer, L'immagine dell'uomo nel liberalismo, intervento al Convegno "Immagini dell'uomo, percorsi antropologici nella filosofia moderna", Roma 29 febbraio-1 marzo 1996, in corso di pubblicazione negli Atti presso le ed. Armando.