Realismo e verità nel pensiero di Hilary Putnam

Al termine dell’articolo Mezzo secolo di filosofia americana, dove Putnam ripercorre il proprio cammino speculativo, egli afferma di non auspicare affatto, contrariamente a quanto potrebbe sembrare, la fine della filosofia analitica, se con essa si intende una linea di pensiero «informata dalla conoscenza della scienza, degli sviluppi della logica moderna e delle grandi opere dei filosofi analitici del passato, da Russell, Frege, Reichenbach e Carnap»1. Anzi, in tal senso, egli si ritiene un filosofo analitico, che si rivela però preoccupato di alcune posizioni presenti in questo ambito speculativo: in particolare la tendenza allo scientismo e a guardare con sufficienza alla storia della filosofia e il rifiuto ad ascoltare altre correnti di pensiero (soprattutto di provenienza continentale)2. Egli inoltre afferma in Mente, corpo, mondo, che non si riconosce nell’“arretramento” che contraddistingue alcuni dei filosofi analitici contemporanei, anche rispetto a temi come quello della verità o del realismo3.

D’altra parte nell’articolo già citato, come in Mente, corpo, mondo, Putnam sottolinea che il confronto con il neopositivismo e con il pensiero di filosofi provenienti dall’area analitica contemporanea lo ha stimolato a formulare una propria via di ricerca.

Realismo metafisico

Come è noto Putnam ha assunto all’inizio della sua speculazione una posizione che egli stesso definirà “realismo metafisico”, anche in opposizione alla concezione elaborata da Carnap e dal neopositivismo. Egli in Matematica, Materia e metodo sostiene che le asserzioni della scienza sono vere o false, ma non nel senso «che sono modi altamente derivati di descrivere le regolarità dell’esperienza umana»4. Infatti la maggior parte dei neopositivisti sosteneva che il linguaggio scientifico avrebbe dovuto utilizzare, oltre al vocabolario logico, solo termini osservativi, cioè sense datum terms, che si riferiscono a esperienze soggettive invece che a oggetti fisici. In tal modo sarebbe stato possibile esprimere l’intero contenuto della scienza.

Sempre riguardo alla questione della verità degli enunciati scientifici Putnam mette in luce un altro punto di dissenso dai neopositivisti. Secondo questi, enunciati appartenenti ad una teoria più ampia, riguardanti lo stesso fenomeno e affermanti dati diversi, possono, in relazione alle conoscenze possedute in un determinato tempo, non aver alcun valore predittivo osservabile e non essere quindi né veri né falsi. In seguito, però, i medesimi enunciati potrebbero divenire controllabili grazie a cambiamenti nella teoria ed assumere quindi valore di verità o falsità5. Proprio questo è il punto contestato da Putnam, in quanto il medesimo enunciato non può allo stesso tempo avere e non avere valore di verità. A tale obiezione si potrebbe ribattere che non si tratta dello stesso enunciato, poiché col mutare del contesto teorico muta anche il significato dei termini. Il filosofo americano sottolinea che una tale concezione finisce per negare la possibilità di approfondire la conoscenza circa un medesimo fenomeno od oggetto e rende incommensurabili i significati di concetti legati a teorie diverse; infatti, poiché i dati sono “impregnati di teoria”, essi cambiano significato al cambiare della teoria. Il sostegno che Putnam all’inizio della sua speculazione dà al “realismo” è legato perciò soprattutto ad un atteggiamento polemico verso il Neopositivismo e alla necessità di trovare una concezione semantica alternativa, che trova espressione in Il significato di significato6. Putnam mette in luce però che nel suo cammino di ricerca si venne a trovare di fronte ad una situazione problematica: egli aveva ripudiato l’idea positivistica secondo cui una teoria scientifica è uno strumento per prevedere esperienze soggettive; tuttavia la concezione che aveva della sensazione, intesa come un “interfaccia” tra soggetto e mondo, e il modello della mente come computer, ispirati entrambi per molti versi alla concezione cartesiana, non riuscivano a proporre una reale alternativa a questa visione: come la mente così intesa può comprendere una teoria scientifica realisticamente, cioè comprendere termini in quanto si riferiscono a cose reali?7 Se ciò che il cervello elabora non descrive gli oggetti, come allora porsi in connessione con questi? Putnam descrive in Mente, corpo, mondo questa situazione problematica come un’antinomia della ragione: «non vedevo né come si potesse difendere il realismo né come potesse esservi qualche altro modo di comprendere la relazione tra linguaggio e realtà»8. L’internismo, posizione sostenuta da Putnam a partire da Ragione, verità e storia, voleva essere un tentativo – giudicato poi “maldestro” dal filosofo stesso – di trovare una soluzione a tale antinomia9.

Realismo interno

Uno dei punti cardine della prospettiva “internista” è che a differenza di quella “esternista” non assume il punto di vista dell’“occhio di Dio”; quindi solo all’interno di una certa teoria o descrizione è possibile identificare gli oggetti di cui consiste il mondo e possono esistere più descrizioni valide di questo10.

Putnam inoltre critica la «teoria magica del riferimento», propria della concezione “esternista”, che, in una formulazione “classica”, implicherebbe l’esistenza di «raggi noetici» che colleghino le parole e i segni del pensiero alle cose cui questi si riferiscono11, e in una versione “attuale” implicherebbe l’esistenza di «oggetti autoidentificanti», riconducibili cioè a generi ontologicamente ordinati12. Putnam ritiene la propria concezione come risolutiva di tale problema, poiché essa, pur affermando che i segni non corrispondono intrinsecamente agli oggetti, propone che questi, in quanto usati in un dato modo, da una data comunità, corrispondono agli oggetti all’interno degli schemi concettuali delle persone che vi appartengono13. Per il filosofo americano in tal senso gli oggetti conosciuti sono in egual misura «fatti e scoperti», in quanto prodotti dalla nostra invenzione concettuale e dalla esperienza e proprio questo rende possibile che a certi oggetti appartengano intrinsecamente certe etichette, «poiché tali etichette sono gli strumenti che noi abbiamo usato per costruire una versione del mondo con tali oggetti in primo luogo. Tuttavia questo genere di ‘oggetto autoidentificante’ non è indipendente dalla mente»14, come invece gli esternisti sostengono.

Putnam precisa che la propria concezione non coincide con una posizione relativistica secondo la quale un sistema concettuale vale l’altro; l’esperienza, infatti, smentisce teorie inadeguate, ma gli “ingredienti” provenienti da essa sono «modellati in qualche modo dai nostri concetti»15. Egli inoltre precisa che ciò vale anche per le sensazioni.

Quando allora un sistema concettuale può essere ritenuto valido? Quando vi è in esso coerenza e congruenza: «coerenza delle credenze ‘teoriche’ o meno sperimentali tra di loro e con le credenze più sperimentali, ma anche coerenza tra le credenze sperimentali e quelle teoriche»16.

Quella appena descritta non apparirà in seguito a Putnam una soluzione convincente al problema del riferimento; mi pare sia facile tra l’altro individuare in essa una una certa circolarità: se gli “ingredienti” provenienti dall’esperienza sono concettualmente filtrati, come potranno “colpire” il sistema teorico che li “filtra”? Sembra di tornare alla situazione problematica messa in evidenza più sopra in rapporto alla concezione neopositivista. Putnam già in Ragione, verità e storia cerca comunque di chiarire il rapporto tra la “coerenza” nel senso prima inteso e la verità; infatti se la coerenza garantisce l’accettabilità razionale di una teoria, può questa coincidere con la verità? Per Putnam no, poiché «la verità di un’asserzione è una proprietà che non decade con il passare del tempo, mentre la giustificazione può decadere» e porta con sé una certa gradualutà17. Ad esempio la convinzione che la terra fosse piatta era accettabile razionalmente, ma non vera, neppure 3000 anni fa. La verità quindi non trascende completamente la giustificazione, ma è indipendente da ciò che è giustificato “qui ed ora”.

Putnam conclude perciò che «la verità è un’idealizzazione dell’accettabilità razionale. Parliamo come se esistessero condizioni ideali da un punto di vista epistemico e consideriamo ‘vera’ un’asserzione se la si potesse giustificare anche in tali condizioni»18. Putnam ritiene, come già sottolineato, che in conseguenza di quanto detto la concezione internista da lui sostenuta porti con sé l’abbandono definitivo della nozione di verità come corrispondenza, rinominata da lui “teoria del riferimento come rassomiglianza”19; infatti «per indicare una corrispondenza tra le parole, o i segni mentali, e le cose indipendenti dalla mente, dovremmo già avere la possibilità di riferirci alle cose indipendenti dalla mente»20.

In Rappresentazione e realtà Putnam riprende la prospettiva esternista, precisando che affermare che la verità è «oggettiva implica che essa è logicamente indipendente da ciò che la maggioranza dei membri di una data cultura crede che sia vero»21. Successivamente in Realismo dal volto umano pur ribadendo che non è formulabile «una nozione di verità che oltrepassi completamente la possibilità di giustificazione»22, egli tende ad abbandonare il riferimento ad una situazione ideale per accertare la validità di un asserto; questo risulta perciò vero se lo si può giustificare in condizioni “epistemiche sufficientemente buone”. Per determinare poi se ci troviamo in condizioni di tal tipo non possiamo che fare riferimento al contesto linguistico relativo alle conoscenze prese in considerazione23. «Le nostre norme e i nostri standard d’asseribilità garantita sono prodotti storici; si evolvono col tempo»24; essi inoltre riflettono sempre i nostri interessi e valori e sono quindi suscettibili di riforma.

Putnam in tale fase del suo pensiero sembra quindi preoccupato di salvare da un lato l’autonomia della verità, in quanto asseribilità garantita, da ciò che incontra il consenso della maggioranza; dall’altro tende a legare in modo ancora accentuato gli standard di validità al contesto storico-linguistico, così da non riuscire ad offrire adeguata realizzazione alla prima importante aspirazione espressa, cioè l’esigenza di oggettività della conoscenza. In seguito il rifiuto della verità come “consenso” raggiunto in condizioni ideali si manifesterà in modo sempre più deciso nel pensiero di Putnam e lo porterà a sostenere un fecondo dialogo critico con filosofi come Apel e soprattutto Habermas25.

L’abbandono del realismo interno

Le osservazioni contenute in Realismo dal volto umano circa la concezione della percezione in James mostrano come Putnam riveda continuamente le proprie tesi26; esse rappresentano a mio avviso un punto di passaggio alla riflessione seguente del filosofo americano, volta ad un progressivo abbandono del realismo interno, già espresso in Words and life e definitivamente compiuto in Mente, corpo, mondo. In alcuni dei saggi presenti nella prima delle opere ora citate Putnam mette in luce che, in riferimento al problema del rapporto tra corpo e “mente”, nella concezione di Aristotele, e di san Tommaso, si possono trovare indicazioni feconde per formulare una teoria più compiuta ed adeguata di quella legata al “funzionalismo” da lui stesso sostenuto in precedenza27. In tale contesto Putnam analizza anche la questione della percezione, riferendosi alla nota tesi aristotelica secondo la quale, pur implicando la sensazione un mutamento “materiale” corporeo, attraverso essa assimiliamo la forma e non la materia della cosa esperita. Comunque tale tesi venga interpretata, va riconosciuto secondo Putnam che, per Aristotele e san Tommaso, da un lato la sensazione non è affatto qualcosa di “mentale”, dall’altro che la forma delle “cose esterne” è connessa sia con la “cosa esterna” sia con il “fantasma” prodotto in noi grazie all’azione dei cinque sensi28. Pensatori come Cartesio poi sosterranno invece non esista una “forma comune” in relazione alle qualità secondarie, dando il via, insieme ai filosofi empiristi, in primis Berkeley, ad un’impostazione del problema della sensazione e del rapporto tra soggetto e realtà che ne renderà impossibile una spiegazione adeguata. Mi pare che in tal senso la lettura di Aristotele e san Tommaso consenta a Putnam di individuare con sempre maggiore chiarezza i presupposti “nascosti” dell’impostazione gnoseologica della percezione, condivisa da empiristi e razionalisti, e di abbandonarli.

Putnam realizza in Words and Life una revisione critica del proprio pensiero anche in riferimento al problema del realismo e della verità. Egli infatti non fa più coincidere quest’ultima, diversamente che in Ragione, verità e storia, con l’asseribilità garantita; una delle difficoltà sollevate dal filosofo americano a riguardo di tale nozione consiste nel mettere in luce che in nessuna delle concezioni finora formulate nelle varie correnti di pensiero sono state elaborate condizioni adeguate di asseribilità29. Putnam in tale opera, a riguardo del tema della verità sembra comunque più concentrarsi sulla parte critica che su quella costruttiva. Egli inoltre, pur continuando a negare valore al “realismo metafisico”, si dice ora sostenitore del “realismo del senso comune”, che in seguito preferirà chiamare “naturale”. Secondo questo le cose non sono create dal linguaggio e dal pensiero e neppure ne sono parti, e tuttavia possono venir descritte dal linguaggio e dal pensiero30. Chi, come Rorty, sostiene il contrario, spesso condivide gli stessi presupposti del realismo metafisico, ritiene cioè che dovrebbe darsi la possibilità di uscire dal linguaggio e dal pensiero per confrontare questi con la realtà in sé; constatata però l’impossibilità di ciò, nega qualsiasi validità al realismo tout court e in ultima analisi non riesce a giustificare alcuna forma di rappresentazione. Putnam in tal modo sottolinea che la questione del realismo è male impostata, e ciò rende impossibile evidentemente una sua soluzione, come già sottolineato31. Infatti dalla constatazione che è impossibile “uscire” dal linguaggio e dal pensiero per descrivere il mondo, non segue che linguaggio e pensiero non descrivano la realtà32.

Le osservazioni sviluppate mettono a mio avviso in luce la vicinanza di Putnam con la posizione sostenuta da Aristotele e in seguito da san Tommaso a riguardo dell’intenzionalità: come già sottolineato, l’anima è in grado di ricevere la “forma” dell’oggetto, senza trasformarsi ontologicamente in esso33; di ciò è ben consapevole anche il filosofo americano, che però, pur accettando l’intuizione fondamentale che sta all’origine di essa, ne mostra le difficoltà in riferimento soprattutto alla nozione di “forma”, quando con tale termine si intende l’essenza degli enti conosciuti34. Secondo Putnam l’idea che questi posseggano un’essenza che permane identica nel tempo è resa problematica dalla constatazione che nell’evoluzione della conoscenza umana, i concetti relativi ad un oggetto cambiano. Da un punto di vista evoluzionistico ad esempio le specie naturali sono entità storiche, molto simili alle nazioni35. Per tal motivo secondo Putnam è difficile comprendere che cosa significhi assumere la “forma” di un oggetto e ciò non permette di abbracciare totalmente la dottrina “classica” dell’intenzionalità. Non mi addentro qui in discussioni molto complesse, ma mi pare che il cogliere “la forma” di un ente non significhi esaurirne la conoscenza; infatti, come sottolinea Putnam, tale termine è usato anche in riferimento alla conoscenza sensibile, dove “forma” non sta certo per essenza. Talvolta conoscere la “forma” dell’ente significa conoscerne anche l’essenza, ma ciò non implica che la conoscenza di essa non si realizzi attraverso un processo “storico”. Sembra quasi che Putnam comprenda il testo aristotelico nel senso che “cogliere la forma” implichi la conoscenza immediata e totale l’oggetto. Ma non mi pare vi sia una necessaria implicazione tra ammettere che la nostra conoscenza “intenziona” “direttamente” la realtà, anche nella conoscenza concettuale – cosa su cui Putnam si troverà sempre più in accordo – e l’affermazione che la nostra conoscenza coglie immediatamente l’essenza “ultima” delle cose. D’altra parte a mio avviso Putnam non distingue chiaramente tra il processo che ci porta a conoscere progressivamente la realtà da un lato, e la natura ed evoluzione delle cose dall’altro; il fatto che la nostra conoscenza si evolva progressivamente non implica necessariamente, in una prospettiva realistica, che l’essenza degli enti conosca la medesima evoluzione36.

Realismo naturale

I temi ora esaminati trovano ulteriore approfondimento in Mente, corpo, mondo, dove, come già sottolineato, Putnam sostiene, con termine mutuato da James, “il realismo naturale”, posizione che vuole rendere «giustizia all’idea che le nostre pretese conoscitive sono tenute a rispondere alla realtà senza cedere a fantasie metafisiche»37. Il filosofo americano ribadisce che il mondo è quello che è indipendentemente dagli interessi dei suoi descrittori, ma precisa che quando parla di “realtà” egli non intende riferirsi ad una sorta di “singola supercosa”; infatti noi “rinegoziamo” incessantemente «il nostro concetto di realtà a mano a mano che il nostro linguaggio e la nostra vita si sviluppano»38. Ciò è in sintonia con l’intuizione positiva di James, cioè che la “descrizione” non è mai una mera copia e che noi ampliamo costantemente i modi in cui il linguaggio deve rispondere alla realtà. Quest’ultima infatti, a differenza di quanto ritiene il realista metafisico, non impone la totalità delle possibili descrizioni una volta per tutte.

Nelle pagine seguenti di Mente, corpo, mondo Putnam delinea con chiarezza la già citata antinomia che il realismo sembra implicare, derivata dalla assunzione che debba esistere «un’interfaccia tra le nostre capacità cognitive e il mondo esterno – o per dirla in modo diverso, l’idea che le nostre capacità cognitive non possano raggiungere direttamente gli oggetti stessi»39. Tale assunzione, come già detto, domina nella filosofia moderna fino alla contemporanea assimilazione della mente ad un computer, nel quale si realizzano processi di “rappresentazione” della realtà. Il realismo naturale, invece, sostiene che gli oggetti della percezione sono “cose esterne”, ma non nel senso che queste causino in noi certe esperienze soggettive. P rinnova cioè la propria critica alla teoria “causale” della percezione e sostiene con James «che la percezione veridica è un sentire gli aspetti della realtà ‘là fuori’ e non una semplice affezione della soggettività della persona da parte di quegli aspetti» 40. La tesi secondo cui le esperienze sensibili fungono da intermediarie tra noi e il mondo non si fonda su argomenti cogenti e ancor peggio non riesce per Putnam a rendere ragione del modo in cui le persone sono in contatto cognitivo autentico con il mondo41.

Secondo il filosofo americano la necessità di riconsiderare la questione della percezione, avvertita come fondamentale da James e successivamente da Austin, non ha più trovato in seguito una adeguata ricezione nella filosofia analitica – e dopo gli anni ’50 del secolo scorso - anche in quella continentale. Putnam mette in luce – e questo è a mio avviso uno degli aspetti più interessanti della sua analisi - che tale “dimenticanza” ha finito per impedire di porre correttamente il problema del rapporto tra linguaggio e realtà. Se la percezione non ci conduce direttamente alle cose, come potrà il linguaggio agganciarsi ad esse? L’attuale questione di come il linguaggio “si aggancia al mondo” non è che «la riedizione del vecchio problema di ‘come la percezione si aggancia al mondo’»42.

Ripercorrendo il cammino speculativo, che come già visto, lo ha condotto al realismo interno, Putnam sottolinea che la nozione di verità come asseribilità garantita non conduceva a risolvere veramente l’antinomia del realismo, in quanto rimaneva problematico giustificare un accesso “diretto” al mondo per accertare la “bontà” delle condizioni epistemiche della nostra conoscenza43. Putnam in Mente, corpo, mondo mette in luce, in accordo con Mc Dowell, che l’uscita dall’antinomia può riuscire solo in quanto si riconosce che essa non esiste, poiché il suo presentarsi è determinato dall’impostazione erronea del problema della percezione44.

Putnam, a sostegno delle proprie tesi, si richiama all’opera di Austin Senso e Sensibilia, a suo avviso ingiustamente dimenticata, e mostra come in essa si trovino importanti argomenti contro la teoria della percezione affermatasi nella modernità. Egli, in particolare, prende in considerazione una delle critiche più diffuse anche dagli epistemologici contemporanei, cioè la non veridicità di alcune esperienze visive o legate ad altri sensi. Gli esempi portati – il bastone spezzato, il sogno, ecc. – per Putnam mostrano senz’altro che la percezione non è infallibile, ma da tale constatazione non si può inferire che essa non sia diretta, a meno che ci si fondi su presupposizioni date per assunte e non vagliate45. Ad esempio, anche se vedo il bastone erroneamente spezzato, «percepisco qualcosa ‘là fuori’; è solo per il fatto che ciò che percepisco mi sembra qualcosa d’altro che lo prendo per qualcosa d’altro»46. Putnam analizza il caso, proposto da Austin, di una persona che sogni di trovarsi in un luogo, in cui non è mai stata, che le appare qualitativamente identico a come lo vedrà con i suoi occhi quando in seguito avrà occasione di recarvisi veramente. Un tale caso potrebbe venir usato da un “epistemologo tradizionale” per sostenere che in entrambe le situazioni, data l’identità delle “immagini”, la persona non ha fatto altro che percepire dati sensoriali, con la differenza che quando si trova realmente nel luogo citato, si mette in atto una catena causale che “provoca” l’apparire in lei dei dati sensoriali stessi. Austin, seguito da Putnam, mette in luce una serie di elementi infondati in questo argomento; esso si basa sull’assunzione che colui che sogna stia effettivamente percependo qualcosa e che «tutto ciò che non è fisico deve essere ‘mentale’…C’è lo strano uso di ‘diretto’ e ‘indiretto’ (come se vedere un oggetto davanti a sé fosse davvero vederne l’immagine su uno schermo televisivo interno)»47 . Inoltre anche concedendo, cosa non del tutto fondata, che le esperienze del sogno e quelle della veglia siano identiche dal punto di vista qualitativo, non vi è alcun motivo plausibile per concludere che «oggetti con ‘nature’ radicalmente differenti non possano apparire del tutto simili»48. James e Austin quindi affermano che anche ammesso che i sogni e le allucinazioni siano forme di percezione di qualcosa di non fisico e nei primi si realizzino esperienze pressoché identiche a quelle veridiche, da ciò non segue che l’oggetto di tali esperienze veridiche non sia ad esempio proprio il luogo che realmente la persona vede49. Putnam prende in considerazione le possibili repliche ai suoi argomenti: un epistemologo ‘tradizionale’ potrebbe obiettare che la tesi di Austin non spiega perché l’esperienza del sogno e quella della veglia risultino “identiche”. Secondo il filosofo americano, se chi muove tale obiezione fosse un ‘immaterialista’, come Cartesio, si troverebbe in difficoltà a spiegare in che modo eventi del cervello producano dati sensoriali o in che modo la mente colga in modo immediato tali dati50. Questa difficoltà è acuita dalla diversità di posizioni sostenute nell’ambito dell’epistemologia “tradizionale”, da quella empirista fino alla contemporanea, dove si discute se tutte le menti possano riferirsi agli stessi dati sensoriali o se questi sussistano senza essere affatto percepiti. In ogni caso le spiegazioni presentate in tale ambito secondo Putnam devono ricorrere, per spiegare l’identità qualitativa tra dati del sogno e della percezione, ad entità e processi “misteriosi” e mancano quindi di qualsiasi controllabilità51.

Putnam poi prende in considerazione quelle teorie che sviluppano in senso materialistico la concezione cartesiana della percezione e della mente; esse in età contemporanea affermano la cosiddetta teoria dell’identità: sensazioni e pensieri non sono altro che stati cerebrali. Queste teorie sembrerebbero non trovarsi nella difficoltà precedentemente segnalata, poiché sia i dati sensoriali sia gli eventi mentali che li causano sarebbero materiali. Tuttavia per Putnam rimane non spiegato da parte di queste teorie come sia possibile divenire coscienti dei qualia. Gli argomenti di Fodor portano a conclusioni inaccettabili, quale l’ammissione dell’esistenza di dati sensoriali senza che vi siano persone che li esperiscano. D’altra parte per Putnam le indagini condotte ad esempio da Dennett hanno mostrato che è impossibile individuare una parte del cervello preposta all’attività della coscienza. «I cervelli hanno centri del linguaggio, aree per diversi generi di memoria, ecc., ma non centri di coscienza»52. La “teoria dell’identità” non spiega perciò secondo Putnam come avvenga la percezione immediata di un dato sensoriale e va incontro a difficoltà più gravi, riguardanti precisamente il modo di intendere l’identità tra dati sensoriali e stati cerebrali53. Putnam delinea quindi la posizione che ritiene più coerente: si devono considerare «le esperienze sensoriali non come modificazioni passive di un oggetto chiamato ‘mente’, ma come esperienze di aspetti del mondo da parte di un essere vivente. Parlare della mente non è parlare di una nostra parte immateriale, ma piuttosto un modo di descrivere l’esercizio di certe capacità che possediamo, capacità che pur sopravvenendo sull’attività dei nostri cervelli e sulle nostre transazioni con l’ambiente, non possono essere spiegate riduttivamente usando il vocabolario della fisica e della biologia, e neppure quello dell’informatica»54.

Putnam prende in considerazione anche altre motivazioni che hanno portato alla concezione epistemologica “tradizionale”: la distinzione tra qualità primarie e secondarie; poiché le prime non esprimono alcuna caratteristica della realtà, hanno uno status solo mentale. Il filosofo americano si richiama ad osservazioni di Husserl al riguardo – le qualità primarie come astrazioni idealizzate – e mostra come negare che le cose ad esempio siano colorate comporta la messa in discussione anche di altre caratteristiche ritenute oggettive e fondamentali per la scienza, quali forma e solidità. La scienza in tal senso colpirebbe i suoi stessi dati55.

Putnam ribadisce, sempre riguardo alla questione del colore, che dalla constatazione che le cose sottoposte a diverse fonti di luce ci appaiono di differente aspetto cromatico, segue solo che il colore è la potenzialità di avere “quei modi di apparire” in quelle varie condizioni, è cioè una “proprietà relazionale”. Non ne segue invece che «il colore è la potenzialità di causare certi dati sensoriali…concepiti come mere affezioni della nostra sensibilità»56. Intendere i colori come «aspetti irriducibili (quantunque relazionali) della realtà che dipendono dal modo in cui le cose riflettono la luce, dalle condizioni in cui sono viste»57, rappresenta una spiegazione più compiuta di quella propria dell’”epistemologia tradizionale”, in quanto giustifica, tra l’altro, il carattere “pubblico” della percezione. Concludendo il secondo saggio di Mente, corpo, mondo Putnam precisa che il realismo naturale non vuole affatto presentare “una spiegazione metafisica alternativa” a quella propria della epistemologia tradizionale; «riavvicinersi al realismo naturale è rendersi conto dell’inutilità e della inintelligibilità della concezione che impone un’interfaccia tra noi e il mondo»58.

Verità

La teoria dell’interfaccia per Putnam non riguarda unicamente la percezione, ma anche la nostra capacità di formare concetti nel pensiero e di esprimerli nel linguaggio59. Per tal motivo Putnam nel terzo saggio di Mente, corpo, mondo, completa la propria revisione della epistemologia moderna e si richiama alla concezione di Wittgenstein, che sostiene, a suo avviso, una posizione vicina a quella del realismo naturale60. In tale ottica, quando noi ad esempio udiamo un enunciato in una lingua nota, contrariamente a quanto pensa Rorty, «non annettiamo un senso ad una configurazione di segni; percepiamo piuttosto il senso nella configurazione di segni»61; gli enunciati quindi si riferiscono a ciò su cui vertono, e non sono un insieme di “suoni e rumori”.

Putnam riprende un esempio proposto da Wittgenstein, riguardante il caso, apparentemente problematico, del pensare ed esprimere enunciati che io non posso constatare direttamente, perché concernenti situazioni lontane da me o avvenuti nel passato. Se affermo «mio fratello deve tenere un concerto a New York» voglio appunto raccontare che cosa sta facendo mio fratello62 ; questo è l’uso che io intendo fare di tale enunciato, uso che non va erroneamente identificato con le condizioni di asseribilità dell’enunciato stesso63.

Le tesi ora presentate secondo Putnam fanno cadere le obiezioni che Dummett ha manifestato contro il realismo; per questi si pone unicamente tale alternativa: o la verità è lo stato di essere verificato, oppure trascende ciò che il parlante può verificare e quindi non è una proprietà che il parlante può riconoscere. Se si abbraccia questa seconda ipotesi, l’apprensione della verità diviene un “mistero”64. All’eventuale obiezione, fondata sulla teoria di Tarski, riconducibile alla alla posizione dei “deflazionasti”secondo cui io posso comprendere che cosa significa che un enunciato è vero – ad esempio (1)«Lizzie Borden ha ucciso i propri genitori con un’ascia» - anche se non ho la possibilità di “accertare” che lo sia, Dummett potrebbe rispondere che il problema sta proprio nello spiegare in che cosa consista tale comprensione, poiché per lui essa significa riconoscere se un enunciato è verificato; « se(1) venisse verificato (da dati che io stesso percepisco), allora sarei in grado di dire che è stato verificato»65; la mia comprensione di (1) consisterebbe appunto nelle mie abilità di fare ciò. Inoltre dal punto di vista di Dummett, secondo Putnam, si potrebbe concludere che se non ho la possibilità di dimostrare la verità di un enunciato, allora sia esso, sia la sua negazione potrebbero non avere entrambi la proprietà di essere verificati; questo minerebbe il principio del terzo escluso e renderebbe per Dummett necessaria una revisione della logica classica.

Putnam prende poi in esame, a riguardo di tali problemi, la posizione di quei filosofi già citati, che egli chiama “deflazionasti”, i quali sostengono, sulla scorta di una propria interpretazione della teoria di Tarski, che la verità di un enunciato non è una “proprietà sostanziale” di questo, poiché essa coincide con la stessa asserzione dell’enunciato66. I deflazionisti sostengono un verificazionismo “graduale” e non ritengono necessario sacrificare i principi della logica classica; ad esempio in riferimento all’enunciato citato sopra e alla sua negazione si può dire che (2)«o Lizzie Borden uccise i propri genitori con un’ascia oppure Lizzie Borden non uccise i propri genitori con un’ascia»67 , si può cioè applicare il principio del terzo escluso senza fare esplicito riferimento al termine “verità”. Putnam ha già avuto modo di confrontarsi con il “deflazioniamo” nelle varie formulazioni che di questo sono state date; esso non riesce a rendere ragione del fatto che l’apparente ovvietà di (2) dipende dalla nostra credenza «che è un fatto oggettivo se Lizzie Borden abbia o no inferto i famosi “quaranta colpi” »68. Per Putnam, data la situazione problematica in cui le posizioni ora descritte si vengono a trovare, è legittimo e necessario impostare il problema della verità in modo diverso da Dummett e dai deflazionasti, e cercare un’alternativa più plausibile della loro al realismo metafisico69.

Il filosofo americano procede esponendo una possibile serie di obiezioni che il “realista metafisico” potrebbe muovere alle teorie ora citate, per mettere in luce in che cosa la posizione del primo differisce dalla propria. Il senso globale di tali obiezioni mi pare possa venire riassunto nella tesi secondo cui il deflazionismo, sostituendo alla verità la nozione di grado di asseribilità, «non coglie ciò che gli enunciati veri (in quanto contrapposti a quelli falsi) hanno di rilevante: di possedere una proprietà sostanziale che gli enunciati falsi non hanno, vale a dire, la proprietà di corrispondere alla realtà»70. Inoltre né i deflazionasti né Dummett riescono a cogliere il senso della verità in rapporto ad eventi del passato. Il realismo naturale, sulla scorta di Wittgenstein, potrebbe sottoscrivere tali osservazioni, a patto di tralasciare l’espressione “verità sostanziale”, in quanto rivela una sorta di imbarazzo da parte del realista metafisico, quasi che in seguito agli argomenti portati dai “deflazionisti” sia venuta meno la fiducia, da parte sua, nel nostro modo ordinario di parlare e agire. Per tal motivo secondo Putnam questi è costretto a richiamarsi a qualche proprietà misteriosa, “sostanziale” appunto, che sottende ai nostri giochi linguistici. Sia al deflazionista sia al realista metafisico sembra strano che certi enunciati possano dirsi veri71.

In modo più dettagliato Putnam precisa di condividere l’obiezione, mossa dal realista metafisico, secondo cui il deflazionista non riesce a confutare l’antirealismo di Dummett, perché non sottopone a reale critica la concezione della “comprensione” di questi. Tuttavia l’aspetto “metafisico” dell’argomentazione sta nel fatto che si pretende esista una proprietà che vale per tutti gli enunciati veri, «che corrisponda alla forza assertoria di un enunciato». D’altra parte la verità deve essere qualcosa di più rispetto alla semplice asseribilità: la verità deve essere «qualcosa di ulteriore rispetto al contenuto dell’asserzione; …quella cosa in virtù della quale l’asserzione è vera. Ciò costringe il realista metafisico a postulare che, ogniqualvolta si fa un’asserzione vera, vi sia una certa qual cosa particolare che si sta dicendo (oltre a ciò che si sta asserendo)»72. Tale proprietà dovrebbe essere identica per ogni tipo di asserzione.

Putnam conclude le sue argomentazioni affermando che l’errore del deflazioniamo, messo in luce anche dal “realista metafisico”, è di non riuscire a rendere conto del fatto che alcune asserzioni sul mondo sono vere, e non solo asseribili o verificabili; il suo merito consiste nel mostrare, contro il “realista metafisico” che asserire «è vero che p» è la stessa cosa che asserire semplicemente che p73. .

A mio avviso, a sostegno della posizione attribuita al “realista metafisico” – la cui identità rimane comunque alquanto “incerta” – mi pare si possa affermare che se dal punto di vista di ciò che viene asserito può non esservi differenza tra affermare che p o che è vero che p, dal punto di vista del soggetto conoscente sì, poiché è solo grazie ad un atto riflessivo su ciò che conosco che posso affermare la verità dell’asserto che p. Il carattere “ulteriore” del predicato vero risiederebbe in tal caso proprio in tale atto riflessivo, che giudica circa ciò che è stato asserito, non aggiungendo nulla al contenuto dell’enunciato che p. E’ vero quindi che affermando che p, implicitamente affermo che p è vero, ma è estremamente utile e necessario in tal caso portare alla luce ciò che è solo implicito, cosa su cui Putnam stesso sembra concordare.

Nell’ultima parte della terza lezione Putnam ritorna a trattare del rapporto tra verità e riconoscimento di questa e riafferma che non esiste un rapporto intrinseco, per i motivi prima detti, tra comprensione e verificazione; noi siamo cioè in grado di concepire enunciati che non possiamo verificare. Ritornando all’esempio presentato nelle pagine precedenti: se l’enunciato «Lizzie Borden uccise i propri genitori con un’ascia» è vero, ciò che «lo rende tale è semplicemente che Lizzie Borden ha ucciso i propri genitori con un’ascia»74; in tal caso, precisa Putnam, il fatto che la verità trascenda il nostro riconoscimento non ha nulla di più problematico che ammettere che una persona ha compiuto un omicidio, ma non siamo in grado di dimostrarlo75.

Ciò non implica, come invece riteneva Tarski, che ogni enunciato sia vero o falso; Wittgenstein, seguito da Putnam, afferma che non esiste un legame necessario tra verità e proposizione, se non in quanto siamo all’interno di un gioco linguistico che così ha stabilito; ciò non è in contraddizione con il fatto che secondo il filosofo austriaco le proposizioni empiriche possono “corrispondere” alla realtà. Tale corrispondenza però non è stabilita una volta per tutte, ma viene di volta in volta fissata in rapporto a casi particolari, all’interno di un gioco linguistico. Vi è una forma di olismo: «sapere che cos’è la verità in un caso particolare dipende dal conoscere l’uso dei segni all’interno di un gioco linguistico»76. Tale concezione per Putnam costituisce una valida alternativa a quella propria del realismo metafisico, che egli definisce anche in quest’opera in modo non molto dissimile da quello presentato in opere precedenti: esso sostiene che «vi debba essere un unico modo in cui una proposizione è tenuta a rispondere alla realtà, ossia ‘corrispondendo’ ad essa, dove la corrispondenza è ritenuta essere una relazione misteriosa che sottende la possibilità stessa dell’esistenza di proposizioni che avanzano una pretesa conoscitiva»77. Non esiste invece una totalità fissa di tutte le proposizioni, né un unico senso in cui si predica la verità. Si deve esaminare, come suggerito da Wittgenstein, il tipo di linguaggio in cui tale predicato è utilizzato, se etico, religioso, matematico o altro. Da un lato «considerare un’asserzione o una credenza come veri o falsi è considerarli come giusti e sbagliati; dall’altro quale tipo di correttezza o scorrettezza sia in gioco varia enormemente da discorso a discorso»78.

Il viaggio dal noto al noto

Tirando le fila di questo viaggio “dal noto al noto”79 che Putnam ha compiuto e che ho voluto rendere, soprattutto nella sua ultima parte, in modo dettagliato, mi pare si possa mettere in luce che esso è complessivamente coerente: il filosofo americano non ha mai smesso di cercare risposte sempre più compiute a domande che, come già messo in evidenza, erano presenti nella sua speculazione fin dall’inizio. Il realismo naturale, in tal senso, rappresenta un punto d’arrivo che “salva” le istanze positive delle “precedenti” posizioni e nel medesimo tempo risponde a molti dei problemi che queste lasciavano aperti. Si può dire allora che il viaggio è stato portato a termine? Il modo in cui si conclude la terza lezione lascia qualche dubbio al riguardo. Putnam a mio avviso ha costruito una adeguata difesa della teoria della percezione e segnalato i limiti della “epistemologia tradizionale”; meno approfondita e compiuta mi sembra la concezione da lui elaborata della dimensione “concettuale” della conoscenza, sulla quale ritorna, infatti, anche nella postfazione. In che senso i concetti non rappresentano un “interfaccia” tra noi e il mondo? Il timore di cadere nel realismo metafisico - posizione che talvolta sembra costruita da Putnam quasi ad hoc, per delineare e legittimare meglio la propria concezione – porta il filosofo americano ad evitare qualsiasi riferimento ad una struttura ontologica che descriva la “natura” degli enti, esprimibile mediante concetti. Di qui la scelta di essere un aristotelico senza metafisica aristotelica80. L’atteggiamento “economico” di Putnam, ispirato alla tradizione del pragmatismo - eliminiamo l’inutile riferimento ad essenze misteriose che si nasconderebbero dietro alle cose – ha indubbiamente delle giustificazioni: l’epistemologia moderna ha introdotto così tanti intermediari tra il soggetto conoscente e la realtà, da rendere non più comprensibile la possibilità stessa di attingere questa. Diventa però difficile salvare qualche forma di “corrispondenza”, come Putnam intende fare, senza precisare il riferimento ontologico di essa. Limitare questo a “cose” mi sembra troppo poco, anche se è apprezzabile la semplificazione del linguaggio filosofico operata da Putnam. Ma perché non spingere la ricerca più a fondo, indagando sulla “natura” di queste cose? Putnam, come già sottolineato, è convinto che gli enti non abbiano un’essenza concettualmente definibile una volta per tutte81; però vuole anche salvare l’importante idea che la verità trascende il riconoscimento e che quindi la nostra conoscenza si riferisce a “qualcosa” che rimane identico a se stesso, a prescindere dal fatto che noi lo conosciamo o no. Ciò riguarda solo la descrizione di fatti? Certo è possibile descrivere questi riferendosi solo ad individui, ma Putnam stesso afferma che già nella semplice apprensione sensibile e nei giudizi conseguenti sono utilizzati “concetti”82. Concordo con il filosofo americano che ciò non mette affatto in crisi il realismo da lui sostenuto, ma mostra a mio avviso la necessità di chiarire ulteriormente in che cosa consista tale parte concettuale e in che rapporto sia con la realtà.

Un altro aspetto interessante e al medesimo tempo problematico della concezione di Putnam è la sua visione “pluralistica”, affermata qui ed anche nelle opere seguenti: ai diversi campi d’indagine corrispondono diversi approcci conoscitivi e linguistici alla realtà, che non possono venir ridotti uno all’altro. Di qui l’impossibilità di parlare non solo in senso univoco di verità – cosa a mio avviso apprezzabile - ma anche in senso unitario: nella concezione di Putnam sembra quasi non esista un “denominatore comune” tra i vari “significati” di “vero”. Il fatto che egli per chiarire ciò che intende con “verità” usi i termini giustezza, correttezza, non mi sembra sia d’aiuto, poiché questi andrebbero a loro volta ulteriormente definiti. Il pluralismo di Putnam sembra infatti rifiutare che verità significhi “corrispondenza alla realtà” in ogni campo conoscitivo e che la diversità tra i vari ambiti dipenda non dal diverso “senso” del termine vero, ma dai diversi metodi di approccio alla realtà e dai diversi criteri di verità. Mi sembrerebbe più coerente affermare che esiste un’unica definizione di verità, mentre si danno più criteri e metodi per accertarci di essa in vari ambiti disciplinari. Lo sviluppo seguente del pensiero di Putnam non va in questa direzione: egli in rapporto all’etica approfondisce cosa significhi “vero” , evitando di fare riferimento alla nozione di “corrispondenza” e costruendo “un’etica senza ontologia”83.

Riesce Putnam attraverso la sua concezione di verità a salvare totalmente il suo “realismo naturale” e a rendere ragione delle intuizioni dell’uomo comune? Tra queste non vi è forse che le cose abbiano una natura – e non solo “proprietà” – indipendenti dal nostro modo di conoscerle?

Forse occorre una “terza ingenuità”84; tuttavia l’aver garantito dignità filosofica all’atteggiamento più originario che l’uomo ha di fronte alla realtà costituisce uno degli aspetti più interessanti e fecondi della filosofia di Putnam.


1H. Putnam, Mezzo secolo di filosofia americana, «Iride», 22, 1997, pp. 408-437, p. 436.

2Ibi, p. 435.

3 Putnam mutua il termine “arretramento” da Mc Dowell e cita come esempio di questo Goodman e Dummett. Cfr. H. Putnam, Mente, corrpo, mondo, trad. it. di E. Sacchi Sgarbi, ediz. it. a cura di E. Picardi, Il Mulino Bologna 2003, pp. 11-12. (Titolo originale:The Threefold Cord. Mind, Body, and World, Columbia University Press, New York 1999). Cfr. McDowell, Mente e mondo, Einaudi, Torino 1999. Cfr. N. Goodman, La struttura dell’apparenza, Il Mulino, Bologna 1985.

4 Putnam, Mezzo secolo, p. 415. Cfr. H. Putnam, Matematica, materia e metodo, trad. it. di G. Criscuolo, Adelfi, Milano 1993 (ediz. orig. Cambridge 1975).

5 Cfr. Putnam, Mezzo secolo, pp. 415-416.

6 Non entro nel merito qui della nota tesi secondo cui «i “significati” non sono certo nella testa ». Cfr. H. Putnam, Il significato di «significato», in Mente, linguaggio e realtà, trad. it. di R. Cordeschi, Adelphi, Milano 1987, pp. 239-297, p. 251. (Ediz. originale inglese Language Mind and Reality. Philosophical Papers, Vol. II, Cambridge 1975). Per una trattazione più approfondita di tale tema e per indicazioni bibliografiche circa il pensiero di Putnam rimando al mio libro R. Spinaci, Verità e riferimento nel pensiero di K.O. Apel e H. Putnam, Loffredo, Napoli 2001 e miei articoli citati più avanti.

7 Cfr. Putnam, Mezzo secolo, p. 431.

8 Putnam, Mente, corpo, p. 31.

9 Ibi, p. 33.

10Cfr. H. Putnam Ragione, verità e storia, ediz. it. a cura di S. Veca, trad. it. di A. N. Radicati di Brozolo, Il Saggiatore, Milano 1987 (ediz. orig. Reason, Truth and History, Cambridge 1981), p. 57. La critica all’esternismo si fonda anche sulle tesi elaborate da Quine e sul teorema di Lowenhwim –Skolem, secondo cui ogni teoria coerente ha un numero immenso di possibili interpretazioni differenti, anche non isomorfe. Cfr. ibi, pp. 40 e ss. e l’appendice al libro. Mi limito a riassumere gli aspetti fondamentali dell’esternismo; per una trattazione più dettagliata di questo, anche in riferimento al noto argomento dei «cervelli in una vasca», rimando al mio libro, soprattutto pp. 73-112.

11 Cfr. ibi, p. 58-59

12 Cfr.ibidem. Entrambe le espressioni sono mutuate da altri autori cfr. Ibi p. 59, nota 1 e 2.

13Cfr. ibi, p. 60.

14 Ibi, p. 62.

15 Ibdem.

16 Ibidem.

17 Ibi, p. 63.

18 Ibidem.

19 Ibi, p. 65.

20 Ibi, p. 81.

21 H. Putnam, Rappresentazione e realtà, trad. it. di N. Guicciardini, Garzanti, Milano 1993 (ediz. originale Cambridge 1988), p. 142.

22 H. Putnam, Realismo dal volto umano, ediz. ital. a cura di E. Picardi, trad. it. di E. Sacchi, Il Mulino, Bologna 1995 (ediz. orig. Cambridge (Mass.) 1990), p. 9.

23Cfr, pp. 7-8.

24Cfr. ibi, p. 128.

25Cfr. i contributi di Apel e e Habermas contenuti in M.-L. Raters-M. Willaschek (hrsg.), Hilary Putnam und die Tradition des Pragmatismus, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 2002 e le relative risposte di Putnam. Cfr. anche H. Putnam, Fatto/valore. Fine di una dicotomia, trad. it. di G. Pellegrino, Fazi Editore, Roma 2004 (ediz. orig. Cambridge (Mass.)-London 2002) e R. Spinaci, Fatti, valori, norme. Alcune riflessioni sulla concezione etica di Hilary Putnam, in I. Tolomio (a cura di), Rileggere l’etica tra contingenza e principi, CLEUP, Padova 2007 (tale scritto contiene i contributi al XLVIII Convegno per Ricercatori universitari e Dottorandi di ricerca in discipline filosofiche, Padova, 7-8 settembre 2006); R. Spinaci, Un nuovo Illuminismo?, in R. Pozzo-M. Sgarbi, I filosofi e l’Europa. Atti del XXXVI Congresso Nazionale di Filosofia della Società Filosofica Italiana, (Verona, 26-29 aprile 2007), Mimesis Edizioni, Milano Udine 2009, pp. 317-327.

26 Cfr. Putnam, Realismo, pp. 407-434.

27 Cfr. H. Putnam, Words and Life, ed. by J. Conant, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) - London 1994; in particolare cfr. How Old Is the Mind?, ibi, pp. 3-21 ; H. Putnam - M. C. Nussbaum, Changing Aristotle's Mind, ibi, pp. 22-61; Aristotle after Wittgenstein, ibi, pp. 62-81.

28 Cfr. Putnam, How Old Is the Mind? pp. 8-9 e 4-5. Cfr. anche pp. 31 e ss..

29 Cfr. Putnam, Words, p. V; On Truth, ibi, pp. 315- 329. Qui Putnam mette in luce che un primo senso di asseribilità e delle relative condizioni è legato ad una interpretazione behaviouristica (asserire come atto fisico del “pronunciare”); un secondo senso è connesso alla concezione funzionalista sostenuta in precedenza da Putnam stesso (asserire come mettere in atto una corretta performance di un programma “funzionale”). In un terzo senso asseribilità può venire concepita come il grado di conferma. Putnam sostiene che queste tre formulazioni si rivelano incapaci di spiegare in che cosa consiste appunto l’asseribilità garantita e quindi la verità di un’asserzione. La parte quinta di Words and life (pp. 315-388) è appunto dedicata al problema della verità.

30 Putnam, The question of Realism, ibi, pp. 294-312, p. 303.

31 Ibi,pp. 297 e ss..

32 Cfr. ibi, p. 297.

33 Cfr. Putnam, Aristotle, p. 62. Ovviamente non intendo affatto attribuire ad Aristotele l’uso di un termine corrispondente a “intenzionalità”, in quanto introdotto nella filosofia da Brentano. Sui temi ora esaminati cfr. E. Berti, Aristotele e il «Mind-Body»Problem, «Iride», 23, 1998, pp. 43-62. Cfr. anche R. SPINACI, Il rapporto tra mente, corpo e mondo nel pensiero di H. Putnam, in A. V. Fabriziani (a cura di), Corpo e anima oggi, CLEUP, Padova, 2004 (tale scritto contiene i contributi al XLVIII Convegno per Ricercatori universitari e Dottorandi di ricerca in discipline filosofiche, Padova, 4-6 settembre 2003), pp. 127-143.

34 Cfr. Putnam, Aristotle. In realtà Putnam preferisce comunque la nozione aristotelica di “forma”, a quella di Wittgenstein. Cfr. ibi, pp. 69-71.

35Ibi, pp. 74 e ss..

36 Cfr. ibi, p. 73. Alcune delle osservazioni che qui muovo alla concezione di Putnam sono in sintonia con quelle presentate da Haldane, con il quale il filosofo americano ha realizzato un costruttivo dibattito, ma che ribadisce che è impossibile «godere dei vantaggi del realismo epistemologico aristotelico» senza accettare aspetti della sua concezione metafisica. Cfr. G. Haldane, Realism with a metaphysical skull, in J. Conant-U. M. Zeglen (ed. by), Hilary Putnam. Pragmatism and Realism, Routledge, London-New York 2002, pp. 97-104, p. 97 e la risposta di Putnam, ibi, pp. 105-108. Cfr. anche J. Haldane, On Coming Home to (Metaphisical) Realism, «Philosophy», 276 1996, pp. 287-296. Per un’approfondita analisi di questi temi cfr. G. De Anna, Realismo metafisico e rappresentazione mentale. Un’indagine tra Tommaso d’Aquino e Hilary Putnam, Il Poligrafo, 2001.

37Cfr., Putnam Mente, corpo, p. 13.

38 Ibi, p. 21.

39 Ibi, p. 23.

40 Ibi p. 24. Cfr. W. James, Saggi sull’empirismo radicale, Laterza, Bari 1971.

41 Cfr. Ibi, p. 24.

42 Ibi, p. 26.

43 Cfr ibi, p. 36.

44 Cfr. ibidem.

45 Cfr. ibi, p. 48. Cfr. J. Austin, Senso e sensibilia, Lerici, Roma 1968.

46 Cfr. Putnam, Mente, corpo, p. 48.

47 Ibi, p. 51.

48 Ibidem.

49 Cfr. ibidem.

50 Cfr. ibi, p. 53.

51 Cfr. ibi, p. 54-55.

52 Cfr. ibi, p. 57.

53 Il filosofo americano mostra in tal senso i problemi che emergono nella concezione di Davidson, secondo il quale «ogni ‘occorrenza’ di un evento mentale è identica all’occorrenza di un evento fisico». Ibi, p. 65. Due eventi in tal senso sono identici quando hanno le stesse cause e gli stessi effetti. Putnam con Quine sostiene che il criterio offerto da Davidson non è efficace, in quanto implica una circolarità: bisogna già sapere se due eventi sono identici per stabilire se hanno le medesime cause ed effetti. Ibi, p. 65. Cfr. D. Davidson, Azioni ed eventi, Il Mulino, Bologna 1992.

54 Cfr. Putnam, Mente, corpo, p. 66.

55 Cfr. ibi, p. 69. Putnam riconosce per molti aspetti la propria vicinanza al pensiero di Strawson; cfr. P. Strawson, Perception and his objects, in g.f. McDonald (ed. by), Perception and Identity: Essays presented to A.J. Ayer, Cornell University Press, Ithaca (Ill.) 1979.

56 Putnam, Mente, corpo, p. 71.

57 Ibidem.

58 Ibi, p. 72.

59 Cfr. ibi, p. 76.

60 Putnam mette in luce la grande influenza che ha e ha avuto la filosofia di Wittgenstein per la formulazione del proprio pensiero. Egli infatti propone una lettura realista di questi, di contro a quella sostenuta da molti nella filosofia contemporanea (tra questi Kripke, Dummett, Rorty). Cfr. ibi, p. 75. Cfr. L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, ediz. it a cura di M. Trinchero, Einaudi, Torino 1967.

61 Putnam, Mente, corpo, p. 78. Cfr. R. Rorty, Putnam on Truth, «Philosophy and Phenomenological Research», 2, 1992, pp. 415-418.

62 Cfr. Putnam, Mente, corpo, p. 80.

63 Cfr. ibi, p. 79.

64 Cfr. ibi, pp. 82-83.

65 Cfr. ibi, p. 85. Di Tarski cfr. A. Tarski, Der Wahrheitsbegriff in den formalisierten Sprachen, Il concetto di verità nei linguaggi formalizzati, trad. it. di F. Rivetti Barbò, in F. Rivetti Barbò, L’antinomia del mentitore nel pensiero contemporaneo. Da Peirce a Tarski, Milano 1961.

66 A riguardo del deflazionismo cfr. P. Horwich, Verità, Laterza, Roma-Bari 1994.

67 Cfr. Putnam, Mente, corpo, p. 87. Cfr. M. Dummett, La verità e altri enigmi, Il Saggiatore, Milano 1986.

68 Putnam, Mente, corpo, p. 88.

69 Cfr. ibidem.

70 Ibi, p. 89.

71 Cfr. ibi, p. 91

72 Ibi, p. 92.

73Cfr. ibdem.

74Cfr. ibi, p. 106.

75 Cfr.ibidem.

76 Cfr. ibi, p. 110. Utilizzo i termini “enunciato” e “proposizione” secondo l’uso che fa Putnam. Cfr. ibidem, nota 52.

77 Ibi, p. 111.

78 Ibi, p. 113.

79 Putnam si richiama ad un’espressione di John Wisdom.

80 Cfr. ibi, p. 13.

81 Cfr. oltre a quanto prima indicato anche H. PUTNAM, RInnovare la filosofia, trad. it. di S. Marconi, Garzanti, Milano, 1998 (ed. orig. Renewing Philosophy, Cambridge (Mass. 1992), soprattutto capp. 2-4.

82 Cfr. Cfr. Putnam, Mente, corpo, pp. 237 e ss.. della Seconda Postfazione.

83 Cfr. H. PUTNAM, Etica senza ontologia, trad. it di E. Carli, prefaz. di L. Perissinotto, Bruno Mondadori, Milano 2006.

84 Cfr. il titolo della seconda lezione di Putnam, Mente, corpo, intitolato L’importanza di essere Austin: il bisogno di una «seconda ingenuità», pp. 41-72.