Logo e dialogo

I. La filosofia come «logos», cioè argomentazione

Pur professando una concezione della filosofia secondo la quale quest'ultima dovrebbe essere un discorso il piú possibile critico, cioè senza presupposti, non posso partire dal nulla, anzi mi rendo conto che la pretesa di partire dal nulla sarebbe velleitaria, irrealizzabile e quindi ipocrita, perché ogni discorso è inevitabilmente situato, cioè condizionato da "precomprensioni" e "pregiudizi", e quindi necessariamente collegato ad una determinata tradizione (non sono, dunque, insensibile alle innegabili ragioni dell'ermeneutica). Considero pertanto onesto dichiarare subito la tradizione alla quale intendo collegarmi, senza farmi carico della dimostrazione della sua validità o della sua inevitabilità, e sono disposto a discutere, in questa circostanza, anzitutto e soprattutto con quanti altri fanno riferimento ad essa.

La tradizione a cui mi riferisco è quella della filosofia occidentale, nata in Grecia con Talete e, bene o male, sopravvissuta fino ad oggi. Nell'ambito di questa tradizione la filosofia è stata concepita essenzialmente come logos, nel senso forte del termine, cioè non semplicemente come «discorso», semantico (esclamazione, preghiera, comando, ecc.) o apofantico (enunciazione, asserzione, annuncio, rivelazione, constatazione, scoperta, testimonianza), bensí come «argomentazione» (Aristotele avrebbe detto syllogismós, ma il termine è troppo carico di connotazioni limitative e negative per poter essere ancora adoperato con serenità: solo Hegel ne ha compreso la grandezza).

Per argomentazione intendo un discorso che non si limita a dire come stanno le cose, ma cerca di giustificare, di motivare, di dimostrare quanto afferma, di portare delle ragioni, di «rendere conto» di sé. Il «principio di ragione», che sta alla base di una simile concezione della filosofia, è stato a torto screditato da Heidegger, solo perché nella sua formulazione latina, adottata da Leibniz, viene usato il termine ratio, che può significare anche «calcolo» (come l'italiano «conto»). Ma poi la formulazione che ne dà lo stesso Heidegger, usando il termine tedesco Grund e sostituendo all'affermazione «ciò che è ha un fondamento» l'affermazione «l'essere ha il carattere del fondamento», ripristina anch'essa la nozione di «fondamento», sia pure al prezzo di un'arbitraria identificazione di quest'ultimo con l'essere tout court (1).

Non c'è bisogno, tuttavia, di intendere l'argomentazione nel senso grave, impegnativo e solenne del «mostrare il fondamento», perché anche il termine «fondamento» è stato caricato - sempre arbitrariamente - di tutta una serie di connotazioni negative, che evocano atti di imposizione, di violenza, di arroganza. Il significato originario, cioè greco, del principio di ragione, talmente evidente da non essere nemmeno stato mai formulato, è quello delle espressioni socratiche logon labéin e logon didónai, ricevere e rendere ragione, cioè domandare una spiegazione, un perché, non accontentarsi della semplice visione di un fatto, o del semplice ascolto di un annuncio, o dell'obbedienza al comando «vuolsi cosí colà dove si puote» (questo è la vera arroganza), ma stupirsene, meravigliarsene, e perciò ancora e sempre, come direbbe Dante, «dimandare».

«L'iniziatore di siffatta (toiáutes) filosofia - dichiara Aristotele rendendosi conto che non si tratta dell'unica filosofia possibile, ma di una certa filosofia, quella continuata da Platone e da lui stesso - è Talete, il quale sostiene che tale principio [la physis, l'origine, ciò da cui tutto si genera] è l'acqua, probabilmente [isos, che significa "secondo me", cioè indica il motivo per cui Talete deve essere considerato l'iniziatore di questa filosofia] traendo (labón) tale assunto dal (ek) vedere che il nutrimento di tutte le cose è umido». Ed aggiunge: «Ci sono alcuni i quali ritengono che anche i piú antichi, cioè coloro che vissero molto prima di questa generazione e per primi teologizzarono, abbiano avuto questa concezione della physis: essi posero infatti Oceano e Teti come genitori (lett. 'padri') di tutto quel che si genera» (Metaph. I 3, 983 b 20-30).

La differenza fra Talete ed Omero, che fa di Talete il primo «filosofo» e di Omero un «teologo», è tutta in quel «traendo tale assunto dal vedere», che significa giustificando, motivando, argomentando la sua affermazione, mentre Omero l'aveva semplicemente enunciata, sia pure in modo incomparabilmente piú suggestivo ed affascinante, che evoca il connubio fra due divinità. Ma persino Parmenide, il quale in verità esordisce piú da teologo che da filosofo, presentandoci il suo pensiero come addirittura rivelato da una dea, fa dire a quest'ultima che la via dell"«essere» è l'unica percorribile «perché» (gar) il «non essere» non può essere né pensato né detto (fr. 2 D.-K.), cioè perché la via ad essa opposta è impercorribile, e, dopo avere illustrato i motivi di ciò, chiede al suo uditore di «giudicare con la ragione (krínai logoi) l'argomentazione molto discussa (polúderin élenchon)» che gli è stata fornita (fr. 7 D.-K.).

Anche Parmenide, dunque, argomenta, e per questo è filosofo, anzi argomenta meglio di Talete, perché non trae la sua concezione da alcun «vedere», bensí dall'impossibilità della concezione ad essa opposta, impossibilità che a sua volta deve essere illustrata, mostrata: per indicare questa operazione egli usa il termine élenchos, probabilmente in un senso vago e non ancora col signihcato di «confutazione» che esso assumerà a partire da Platone (forse già da Socrate). Per questo Talete, agli occhi di Aristotele, è ancora un «naturalista» (physikós o physiológos), in quanto assume come criterio di verità l'esperienza della natura, mentre Parmenide «sembra che parli con maggiore perspicacia (mállon blepôn)», perché, «ritenendo che oltre all'essere non vi sia per nulla il non essere, pensa che l'essere sia necessariamente uno e niente altro» (Metaph. I 5, 986 b 27-30).

 

2. L'argomentazione filosofica come confutazione

Nella tradizione alla quale mi riferisco, la filosofia è concepita non solo come argomentazione, ma anche come argomentazione senza presupposti, cioè assolutamente critica, nel senso che essa, argomentando su tutto, cioè domandando le ragioni di tutto, non dispone di alcun principio già dato a partire dal quale possa costruire le sue argomentazioni: perciò, pur essendo argomentazione, la filosofia non può essere «dimostrazione» nel senso tecnico del termine, quello chiarito da Aristotele negli Analitici posteriori, vale a dire argomentazione basata su princípi primi, veri, evidenti.

Colui che ha espresso piú efficacemente di ogni altro questa condizione, tutto sommato svantaggiosa, anche se liberamente scelta, in cui si trova la filosofia rispetto ad ogni altro discorso è stato (ancora una volta) Hegel, quando ha scritto, all'inizio dell'Enciclopedia: «La filosofia non ha il vantaggio, del quale godono le altre scienze, di poter presupporre i suoi oggetti come immediatamente dati nella rappresentazione, e come già ammesso, nel punto di partenza e nel procedere successivo, il metodo del suo conoscere» (trad. di B. Croce). Perciò l'unica argomentazione che essa può praticare è la confutazione, vale a dire lo stabilire la verità di un'affermazione attraverso l'accertamento dell'impossibilità di quella ad essa opposta, esattamente come faceva Parmenide.

La situazione emblematica in cui questo accade è, come tutti sanno, l'atteggiamento della filosofia, descritto da Aristotele, di fronte al «principio di non contraddizione». Questo era, per Aristotele, il principio (cioè la condizione di intelligibilità) di tutti i discorsi, e quindi anche di tutte le dimostrazioni, «il piú saldo di tutti i princípi», quello «intorno al quale è impossibile ingannarsi», perché «tutti lo conoscono». Ciononostante, secondo lo Stagirita, il «filosofo» non può accontentarsi di ammetterlo, come lo ammettono tutti, ma deve svolgere intorno ad esso - come pure intorno al «principio del terzo escluso», che di esso è un corollario un'indagine (sképsis), cioè deve chiedersi «se essi siano veri o no», e quindi deve cercare di argomentarli, di dimostrarli (Metaph. IV 3, l005 a 19-33). Ma il principio di non contraddizione, essendo il principio di tutte le dimostrazioni, non si può «dimostrare» semplicemente, bensí si può soltanto «dimostrare elencticamente» (apodéixai elenctichós), cioè dimostrare che è impossibile negarlo, nel qual caso si avrà non una «dimostrazione» (apódeixis), ma una «confutazione (élenchos)» (Metaph. IV 4, 1006 a 11-18).

Questo è, in un certo senso, un caso limite, ancorché emblematico, e quindi fungente da regola, da canone per tutte le argomentazioni filosofiche. In ogni altra argomentazione, infatti, si ha almeno il vantaggio di poter presupporre il principio di non contraddizione, e quindi di poter considerare falsa ogni posizione che sia stata ridotta ad un'autocontraddizione. Perciò Aristotele definisce la confutazione come il «sillogismo della contraddizione», cioè come l'argomentazione che mostra l'autocontraddittorietà di una proposizione. Una volta operata la confutazione, in base al «principio del terzo escluso», si può affermare la verità della proposizione opposta a quella confutata, trasformando in tal modo la confutazione nell'equivalente di una dimostrazione, ossia in quella che si potrebbe chiamare una «dimostrazione dialettica» (nel senso platonico, non kantiano, del termine 'dialettica') (2).

Naturalmente questa dimostrazione funziona solo quando si ha a che fare con due proposizioni fra loro opposte per contraddizione, cioè tali che l'una neghi quello che l'altra afferma ed in tal modo formino un'alternativa totale, capace di esaurire l'intera gamma delle possibili prese di posizione sul tema: solo tra queste opposte, infatti, vale il principio del terzo escluso. Se si ha a che fare, invece, con proposizioni fra loro semplicemente contrarie, come accade ad esempio nel caso delle teorie scientifiche, non è detto che la confutazione dell'una equivalga alla dimostrazione dell'altra, perché due proposizioni fra loro contrarie possono essere entrambe false. Quando, anzi, si riesca a dimostrare la falsità di due proposizioni fra loro contrarie, perché ad esempio si riesce a confutarle entrambe, allora si sarà dimostrata la verità della proposizione contraddittoria ad entrambe, che cioè neghi il genere comune alle due contrarie.

Un caso, altrettanto emblematico quanto la dimostrazione del principio di non contraddizione, di dimostrazione di una proposizione attraverso la confutazione del genere comune a due proposizioni contrarie, di cui essa è la negazione, è la trattazione kantiana delle «antinomie della ragione». In essa, infatti, Kant dimostra che il mondo come cosa in sé non è conoscibile, mediante la confutazione sia della tesi che il mondo è finito, sia della tesi che il mondo è infinito, le quali sono fra loro contrarie, cioè divise da un'opposizione solo dialettica (questa volta, ovviamente, nel senso kantiano del termine), vale a dire apparente, e non da un'opposizione analitica, cioè da una vera e propria opposizione per contraddizione (3). Questa, come è noto, è la prima antinomia della ragione, ma si potrebbe mostrare che lo stesso procedimento è messo in opera da Kant anche a proposito delle altre tre.

3. II carattere dialogico della confutazione

La dimostrazione dialettica, o per confutazione, che abbiamo visto essere l'unico tipo di argomentazione rigorosa praticabile dalla filosofia, si svolge necessariamente nel quadro di un dialogo, reale o fittizio, tra due interlocutori, ciascuno dei quali sostenga una tesi contraddittoria rispetto a quella dell'altro. Per questo, sin dal tempo di Platone e di Aristotele, essa è stata trattata nel quadro della dialettica, cioè della tecnica del dialogo (dialégesthai), naturalmente inteso in senso forte, cioè non come semplice conversazione, ma come discussione, come confronto fra tesi opposte, mirante a stabilire quale di esse è vera e quale è falsa. La dimostrazione vera e propria, al contrario, può benissimo essere un monologo, perché non richiede interlocutori, ma solo princípi da cui partire.

Quando si dice che il dialogo può essere anche fittizio, si allude alla possibilità che qualcuno dialoghi con se stesso, cioè si rappresenti da solo la negazione della propria posizione e cerchi di confutarla. Questo, del resto, è ciò che fanno Parmenide nel suo poema, Aristotele nella difesa del principio di non contraddizione e Kant nella trattazione delle antinomie della ragione. Sotto questo aspetto il «dialogo», sia pure inteso in senso fittizio, sembra essere ancor piú originario del «logo», cioè del pensiero, se è vero che quest'ultimo non è altro che, come Platone ha detto, un «dialogo dell'anima con se stessa» (4).

Il dialogo, del resto, possiede, per cosí dire, un carattere trascendentale, cioè intrascendibile, perché per trascenderlo, cioè per metterlo in questione, è necessario negarlo, e quindi esercitare una forma di dialogo, nel senso forte che ho indicato sopra. Esso possiede lo stesso carattere trascendentale che è proprio di tutte le posizioni autenticamente filosofiche, cioè radicalmente critiche, prive di presupposti ammessi come veri. Tale è, ad esempio, il dubbio, il quale, come ha dimostrato Descartes, è indubitabile, perché dubitarne significa riprodurlo; oppure è tale, come si diceva un tempo nella 'scuola padovana', la problematicità pura, la quale è improblematizzabile, perché metterla in questione significa esercitarla (5).

Un discorso analogo, oggi, si può trovare nella «pragmatica trascendentale» di Karl-Otto Apel, o nella «teoria dell'agire comunicativo» di Jürgen Habermas, nella misura in cui quest'ultimo accoglie l'«argomentazione trascendentale» di Apel, pur negando ad essa il carattere di fondazione ultima dell'etica (6). La situazione comunicativa, infatti, appare intrascendibile, cioè indiscutibile, perché per metterla in discussione è necessario, appunto, comunicare. Non mi sembra, perciò, di poter condividere le critiche mosse a questi pensatori da quanti hanno rilevato come la loro posizione presupponga una situazione di dialogo, di comunicazione, e quindi di intersoggettività, che potrebbe anche essere negata (7). Per poterla negare, infatti, sarebbe necessario riprodurla, sia pure solo idealmente.

L'accusa di presupporre una situazione di intersoggettività presuppone, a sua volta, un'interpretazione metafisico-ontologica della comunicazione, o del dialogo, come relazione tra due soggetti ontologicamente distinti, la quale non è affatto necessaria per garantire il carattere trascendentale della comunicazione, o del dialogo, cosí come non è necessaria alla trascendentalità dell'«io penso» di Kant la sua ontologizzazione in un soggetto sostanziale. Nemmeno l'affermata maggiore originarietà del linguaggio, nella sua valenza simbolica, o della disponibilità all'ascolto, rispetto alla comunicazione, riesce a dimostrare la trascendibilità di quest'ultima, perché la simbolicità, cioè la capacità di significare, e la disponibilità all'ascolto, cioè la capacità di comprendere i significati, sono appunto gli elementi della comunicazione, quando quest'ultima sia intesa non come mera situazione di fatto, ma come struttura trascendentale.

Questo discorso, a mio avviso, conserva tutta la sua validità anche indipendentemente dalla cosiddetta 'svolta linguistica' operata dalla filosofia analitica e dall'ermeneutica, cioè anche se si prescinde dall'assolutezza del linguaggio, da essa affermata, e si conserva al linguaggio la sua caratteristica di discorso sulle cose, totalmente proteso verso di esse e quindi posteriore ad esse (quale del resto esso era per Platone e per Aristotele). Con le sole cose, infatti, non si parla, e nemmeno si pensa, mentre per parlarne, ed anche per pensarle con quella specie di dialogo con se stessi che è il pensiero, è necessario il linguaggio, con la sua caratteristica di discorso significante per altri o almeno per se stessi. Da questo punto di vista il dialogo, per il filosofo, non è una mera situazione di fatto, o soltanto un atteggiamento eticamente raccomandabile, perché segno di disponibilità all'ascolto, al rispetto dell'altro, all'autocritica. Esso è condizione imprescindibile dell'argomentare dialetticamente, e quindi del pensare filosoficamente.

4. Perenne inconclusività del dialogo filosofico

L'uso dimostrativo della confutazione, tuttavia, comporta come sua conseguenza necessaria l'inconclusività del dialogo filosofico. Se, infatti, una posizione che sia stata effettivamente confutata, cioè ridotta ad autocontraddizione, può considerarsi confutata definitivamente, ed in questo senso la confutazione è di per sé conclusiva, la posizione che si intende dimostrare attraverso la confutazione della sua opposta non può mai considerarsi dimostrata definitivamente, perché essa è suscettibile di essere negata in forme completamente nuove rispetto a quella già confutata, e quindi c'è bisogno, per dimostrarla, di confutare continuamente tutte le nuove negazioni di essa, senza mai riuscire a concludere definitivamente il processo.

Poiché su questo argomento ho avuto alcuni anni fa un'interessante discussione pubblica con Carmelo Vigna, la quale si è conclusa con un suo intervento al quale non ho piú risposto, intendo cogliere questa occasione per tentare di fornirgli la risposta dovuta, riprendendo eventualmente la discussione (8). Desidero sgombrare anzitutto il terreno da due possibili equivoci, quello di considerare il dialogo come opportuno per ragioni antropologiche, cioè perché è un atteggiamento simpatico, tollerante, democratico, eticamente positivo, e quello di credere che una posizione filosofica non possa mai essere definitivamente confutata.

Quanto al primo punto, infatti, ho già detto nelle righe precedenti che considero il dialogo non semplicemente un fatto, ma una struttura trascendentale dell'argomentazione filosofica, dato il carattere non apodittico, cioè monologico, ma dialettico, e quindi dialogico, di quest'ultima. Quanto alla confutabilità di una singola proposizione, va da sé che una proposizione, una volta confutata, cioè ridotta ad autocontraddizione, deve intendersi come falsificata definitivamente. L'inconclusività della discussione filosofica non va intesa, pertanto, come riproposizione continua delle stesse tesi, anche dopo che queste siano state confutate, ma come esame di tesi sempre nuove, le quali si configurino tutte come negazione di una proposizione determinata, quella che si intende dimostrare.

Quest'ultimo mi sembra il punto che deve essere ancora chiarito. Un'opposizione fra due proposizioni reciprocamente contraddittorie, cioè tali che l'una neghi interamente ciò che l'altra afferma, si configura necessariamente come opposizione fra una proposizione determinata, per esempio p, ed una proposizione indeterminata, per esempio non-p. Ora, confutare una proposizione determinata è relativamente facile, sempre che essa, naturalmente, sia confutabile. Confutare una proposizione indeterminata mi sembra invece piú difficile, perché nel confutarla si finisce inevitabilmente col determinarla.

Ad esempio, per confutare la proposizione determinata «tutti i cigni sono bianchi», basta trovare un solo cigno non bianco; per confutare invece la proposizione indeterminata «non tutti i cigni sono bianchi», bisogna riuscire a considerare tutti i cigni possibili e mostrare che sono tutti bianchi: impresa non facile. In genere, si procede per singoli passi, cioè si considerano, ad esempio, tutti i cigni che si trovano attualmente in un determinato paese e, se si trova che essi sono tutti bianchi, si può dire di avere confutato l'affermazione «non tutti i cigni che stanno attualmente in questo paese sono bianchi»; poi si può ripetere la stessa operazione con i cigni che si trovano attualmente in un altro paese, e cosí via; ma quando si sarà veramente finito di confutare?

Ora, è precisamente quest'ultima la posizione in cui si trovano quanti, come Vigna ed il sottoscritto, non difendono una posizione filosofica qualsiasi, ma difendono quella che si suole chiamare 'metafisica classica', cioè la tesi della trascendenza dell'Assoluto rispetto all'esperienza (chiedo, per favore, di mettere da parte per il momento qualsiasi altra accezione del termine 'metafisica'). Difficilmente questa tesi si può configurare come una proposizione indeterminata, dimostrabile attraverso la confutazione della sua negazione, la quale in tale caso sarebbe una proposizione determinata. Mi sembra piú probabile che accada il contrario, cioè che la metafisica classica si configuri come una proposizione determinata e la sua negazione sia quindi una proposizione indeterminata. Confutare quest'ultima, perciò, significa confutare tutte le possibili individuazioni particolari di essa, il che è un compito pressoché infinito, ma non inutile, né senza successo, perché quelle effettivamente confutate lo sono una volta per tutte e non possono piú essere riproposte.

Vigna sostiene che una proposizione negativa indeterminata può essere confutata per via fenomenologica, cioè esibendo un controesempio empirico, o per via puramente logica, cioè mostrando che essa è la negazione di una proposizione analitica, o per via 'sinergica', cioè facendo agire insieme fenomenologia e logica (9). Ora è difficile immaginare un controesempio empirico alla negazione dell'esistenza di un Assoluto trascendente: se questo infatti fosse oggetto di esperienza, non sarebbe piú trascendente. Una proposizione analitica di cui essa sia la negazione potrebbe sembrare essere la conclusione dell'argomento anselmiano, ossia «ciò di cui non si può pensare nulla di maggiore esiste necessariamente», che è come dire «l'Assoluto esiste», ovvero «l'essere è». Ma in realtà la tesi che si vuole confutare non è la negazione della semplice esistenza dell'Assoluto, esistenza che è, essa sí espressa da una proposizione analitica, bensí è la negazione della sua trascendenza, la quale non è esprimibile da alcuna proposizione analitica.

Quanto alla via 'sinergica', credo che essa sia la piú valida, ma è anche estremamente complessa e conduce, a mio avviso, sempre alla confutazione di una proposizione determinata, come si può mostrare attraverso la considerazione di alcuni esempi desunti dalla storia della filosofia. Vediamo anzitutto come Aristotele ha difeso la proposizione - o il complesso di proposizioni, prima formulazione rigorosa della metafisica classica - secondo cui non tutto ciò che esiste si muove, né tutto ciò che esiste sta fermo, ma qualcosa (anzi la maggior parte) di ciò che esiste si muove, e qualcosa (praticamente un'unica realtà) invece sta fermo. Chiedo scusa per l'apparente banalità del linguaggio, superabile se si tiene presente che Aristotele non parla di 'cose' e che le espressioni «muoversi» e «star fermo» per il filosofo antico hanno un significato che va ben oltre quello puramente meccanico.

Aristotele ha dimostrato dialetticamente questa posizione confutando le sue due principali negazioni formulate all'epoca, cioè l'eraclitismo, per il quale tutto si muove, e l'eleatismo, per il quale tutto sta fermo. A proposito del primo, infatti, egli ha osservato che la stessa affermazione «tutto si muove», per essere vera, deve essere tenuta ferma, ed a proposito del secondo che la stessa affermazione «tutto sta fermo», per essere formulata, deve implicare un movimento (cf. Metaph. IV 8, 1012 b 22-31). è questo un esempio classico di confutazione di un'antinomia fra due proposizioni contrarie, comportante la dimostrazione di quella contraddittoria ad entrambe, cioè «qualcosa si muove e qualcosa sta fermo». Ritengo che si tratti di una confutazione 'forte', cioè definitiva, tale da escludere per sempre la riproponibilità dell'assoluto immobilismo e dell'assoluto mobilismo.

Eppure Aristotele stesso si è reso conto che la sua posizione poteva essere contestata anche in altri modi, completamente diversi da quello sopra riportato, ad esempio mediante proposizioni di tipo scettico, quali il detto di Protagora «tutte le opinioni sono vere», o quello ad esso equivalente «tutte le opinioni sono false»: in entrambi i casi, infatti, non c'è piú spazio né per la metafisica classica né per un qualsiasi altro tipo di filosofia. Egli si è impegnato ancor prima, pertanto, a confutare anche queste ultime, osservando come la prima comporti la verità anche della sua opposta, e pertanto si autodistrugga, e la seconda comporti anche la propria falsità, e quindi ugualmente si autodistrugga (ib. 1012 b 13-22) (10). Ora, non si può dire che questa confutazione fosse contenuta nella precedente, anche se presenta con essa innegabili analogie (si tratta pur sempre, come in ogni confutazione, di una riduzione all'auto-contraddizione), dunque la confutazione precedente non era ancora una dimostrazione conclusiva della metafisica classica, cosí come sicuramente non lo è nemmeno la confutazione dello scetticismo.

5. Storicità della filosofia

All'esempio sopra riportato se ne potrebbero far seguire molti altri. Non c'è dubbio, infatti, che lo scetticismo antico è rivissuto nel tardo medioevo sotto la forma del nominalismo, il quale ugualmente si è configurato come una negazione della metafisica classica, rivelandosi tuttavia esiziale anche nei confronti di ogni altro tipo di discorso filosofico (o scientifico) e lasciando spazio praticamente solo al fideismo (come spesso tendono a fare gli avversari, anche i piú «laici», della metafisica). Il nominalismo, a sua volta, è rivissuto in età moderna nella forma dell'empirismo humiano, e per la confutazione di entrambi è stato necessario attendere il contributo formidabile di Kant (con la dottrina, sopra citata, delle antinomie della ragione), ma non si può certo dire che quest'ultimo fosse implicito nella confutazione aristotelica dello scetticismo.

Anche la posizione di Kant è stata spesso scambiata per una negazione della metafisica, mentre essa, come è stato dimostrato, nega soltanto la metafisica come «scienza» nel senso kantiano del termine, cioè come discorso formato da giudizi sintetici a priori, ossia determinanti (quale voleva certamente essere la metafisica cartesiano-leibniziana), mentre non nega affatto la metafisica intesa come problema, cioè come discorso consistente nella problematizzazione inesauribile, e quindi inconclusiva, dell'esperienza (11).

La negazione della metafisica si è ripresentata in forme del tutto nuove col positivismo e col neopositivismo, confutati rispettivamente dalla seconda rivoluzione scientifica, che ha mostrato i limiti del sapere scientifico, e dall'autodistruzione del principio di verificabilità empirica, che ha rivelato la propria inverificabilità; ma non si può certo dire che queste confutazioni fossero già contenute in quella aristotelica dell'immobilismo o del mobilismo assoluti. Essa si è presentata poi sotto la veste del marxismo (specialmente quello di Engels e di Lenin), il quale ha incautamente indicato nella storia il criterio della propria verità, e la storia lo ha puntualmente falsificato. Ma nemmeno di questa falsificazione il merito può essere attribuito ad Aristotele.

Piú complessa appare la confutazione di nuove negazioni della metafisica, quali il nichilismo nietzschiano o l'intuizionismo heideggeriano, perché esse si collocano al di fuori del campo dell'argomentazione. A questo proposito si sarebbe tentati di fare ricorso alla nota affermazione di Aristotele «è ridicolo cercare un'argomentazione (lógon) contro chi non ha nessuna argomentazione» (Metaph. IV 4, 1006 a 13-14). Ma forse conviene impegnarsi maggiormente nella ricerca di una confutazione, la quale certo deve assumere configurazioni del tutto nuove rispetto a quelle delle negazioni precedenti, e questo potrebbe essere il compito dei metafisici del nostro tempo, almeno fino a quando tali posizioni, come è accaduto a tutte le precedenti, non si saranno confutate da se stesse.

Un recente e maldestro tentativo di negazione della metafisica è stato avanzato addirittura sulla base della cosiddetta 'sfida della complessità', cioè dell'affermazione della causalità e irreversibilità dei fenomeni naturali, dando luogo ancora una volta ad esiti di tipo fideistico, senza che venisse percepita, da parte degli autori vuoi della negazione che della sua interpretazione in senso fideistico, l'assoluta irrilevanza di tali risultanze ai fini di un discorso propriamente metafisico. Ma anche quest'ultima andrà dimostrata, dando origine anch'essa ad una confutazione, sia pure sui generis, della negazione della metafisica. La ricerca insomma, per dirla con Popper, non ha mai fine, ma non per questo è sterile o ripetitiva.

Questa situazione, anzi questo stato di necessità, è ciò che costituisce anche l'inevitabile storicità della filosofia, la quale non è, per tornare al mio dialogo con Vigna, un semplice stato di fatto e non contrasta col carattere trascendentale della coscienza (12). Anche una coscienza trascendentale, infatti, può essere finita, e tale è certamente la nostra coscienza di uomini, per il fatto che dubitiamo, domandiamo, discutiamo. Se questa coscienza non fosse finita, sarebbe assoluta, e quindi intuitiva, ed in tal caso non saremmo qui a discutere tanto. Ciò non esclude che essa possa avere esperienza di una verità metastorica, come giustamente pretende Vigna: nulla impedisce, infatti, che anche una coscienza costitutivamente storica abbia esperienza, nella storia, di una verità metastorica, per esempio delle proposizioni analitiche, senza con ciò essere una coscienza assoluta.

Tutto questo non toglie che, come dice Vigna, nell'ordo essendi il positivo preceda il negativo, la verità sia il fondamento della falsità della sua negazione; ma la filosofia, e noi con essa, segue l'ordo cognoscendi, dove l'accesso al positivo passa attraverso il negativo, l'adesione alla verità passa attraverso l'accertamento della falsità della sua negazione. Proprio questa discrepanza tra l'ordo essendi e l'ordo cognoscendi, o, come diceva Aristotele, tra ciò che è chiaro in sé e ciò che è chiaro per noi, è il segno della finitezza della nostra coscienza. Anzi, proprio l'inevitabile e costitutiva storicità della filosofia è la prova della verità della metafisica, di una «metafisica della finitudine», come ama dire Gadamer, consistente tutta e solo nel rilevamento - discorsivo, perché finito - della finitezza della nostra coscienza. Su questo spero di trovare il consenso anche degli amici 'ermeneutici'.

 

Note

(1) M. HEIDEGGER, Il principio di ragione, a cura di F. Volpi, Milano 1991, 90-91

(2) Platone infatti, nella Repubblica, afferma che la «dialettica», cioè la filosofia, a differenza dalle matematiche, non parte da ipotesi, cioè da presupposti, ma perviene ad un «principio anipotetico» (stessa espressione con cui Aristotele designa il principio di non contraddizione) «passando attraverso tutte le confutazioni» (dià pánton elénchon diexión), cioè confutando tutte le altre possibilità, ovvero l'intera gamma delle possibili negazioni di esso (Resp. VII, 5 34 B-C).

(3) E. KANT, Critica della ragion pura, Bari 1959, 420-424.

(4) PLATONE, Soph. 263 E. Anche Aristotele ritiene che il significare qualcosa, condizione della possibilità del linguaggio, possa esercitarsi non solo nei confronti degli altri, ma anche solo nei confronti di se stessi (cf. Metaph. IV 4, 1006a 21-24).

(5) L'espressione 'scuola padovana', con riferimento alla scuola filosofica fondata a Padova da Marino Gentile, è divenuta in un certo senso canonica, da quando ha cominciato ad essere usata non solo dai componenti di questa scuola, ma anche dai suoi critici. Cf. a questo proposito l'articolo di M. MANGIALLI, La «Scuola di Padora» e i problemi dell'ontologia contemporanea, Aquinas 33 (1990) 639-668.

(6) Cf. K.-O. Apel, Idee regolative o evento del senso? Tentativo di definire il logos dell'ermeneutica, in De Domenico e altri, Ermeneutica e filosofia pratica, Venezia 1990, 17-40; J. Habermas, Etica del discorso, Roma-Bari 1985, 65-77.

(7) Cf. P. Aubenque, Vérité et scepticisme, Diogéne, n. 132, octobre-décembre 1985, 100-110; B. Cassin, "Parle, si tu es homme" ou l'exclusion trascendentale, Les études Philosophique, (1988) 145-155; E. Severino, La tendenza fondamentale del nostro tempo, Milano 1988, 90-106; F. Chiereghin, Linguaggio, comunicabilità e pensiero. Nota alla pragmatica trascendentale di K.-O. Apel, in E. Berti (cur.), Tradizione e attualità della filosofia pratica, Genova 1988, 137-150.

(8) Cf. C. Vigna, Sulla incontrovertibilità del sapere filosofico, Bollettino della Società Filosofica Italiana, nuova serie, n. 131, maggio agosto 1987, 10-28; E. Berti, Sulla dimostrazione dialettica, ib, n. 132, settembre-dicembre 1987, 7-13; C. Vigna, Sull'incontrovertibilità del sapere filosofico, Verifiche 18 (1989) 305-328.

(9) Vigna, cit., 325-326.

(10) La perplessità espressa da M. Heidegger (Logica. Il problema della verità, Milano 1986, 14-18), e ripetuta in seguito da molti altri, nei confronti di questo tipo di confutazione dello scetticismo, si fonda sul noto concetto heideggeriano di verità antepredicativa, che mette ugualmente fuori causa ogni forma di scetticismo, ma lo fa in maniera non argomentata, e quindi piuttosto dogmatica, riconoscendo in tal modo l'efficacia della suddetta confutazione nell'ambito della verità proposizionale, che è quello dell'argomentazione.

(11) Cf. M. Gentile, Come si pone il problema metafisico, Padova 1955.

(12) «A me pare - scrive Vigna - che storicità, problematicità, dialogicità [...1 appartengano alla coscienza pensante come l'empirico appartiene al trascendentale, ossia non necessariamente ma appunto di fatto» (cit., 309-310).