Scienza e coscienza teologica

Relazione al XIV Seminario Urbinate - Polis e scienza - 21-22 settembre 2007.

Pubblicata sul sito dell'autore.

1. Premessa

Il titolo “Scienza e coscienza teologica”, che mi è stato assegnato, mi sembra particolarmente adatto a sintetizzare quanto ho in animo di proporre in questo mio contributo. Infatti mi piacerebbe – se riuscirò in qualche misura a farlo – introdurre la questione a partire da due approcci metodologici che considero in certo qual modo complementari, e mostrare la loro possibile convergenza:

— per primo introdurrei, capovolgendo l’ordine, quello che nel titolo figura per secondo, cioè l’approccio alla “coscienza teologica” a partire dalla quale “leggere” poi la vicenda scientifica;

— e per secondo l’approccio alla scienza, secondo quegli aspetti fondazionali che emergono, più o meno lucidamente nella riflessione epistemologica degli scienziati, come un’istanza “interna” – e sottolineo l’importanza di questo essere “interna” – allo stesso metodo scientifico (cioè non introdotta surrettiziamente e in qualche modo “moralisticamente” dall’esterno), quando questo metodo viene 5correttamente condotto.

Mi sembra esserci un obiettivo comune ai due approcci il cui perseguimento è proposto all’attenzione intelligente e alla libera ricerca dei soggetti dei diversi campi del “sapere” (scientifico, sociologico, psicologico, filosofico, teologico, ecc.) e conseguentemente dell’“agire”, come una provocazione ad intellettuali credenti (teologi inclusi) e non credenti, a riconoscere e ad affrontare razionalmente quelle questioni che sono imprescindibili e urgenti per tutti. È su queste problematiche, credo, che si possa e si debba lavorare a livello disciplinare e interdisciplinare, andando oltre pregiudizi e schieramenti.

Per fissare almeno operativamente i termini del discorso preciso subito che:

— per “coscienza teologica” intenderò non tanto l’opinione, o la tesi di uno o di qualche teologo, quanto la consapevolezza che la Chiesa ha di se stessa così come il suo Magistero la esprime, e la conseguente capacità e volontà di impegnarsi nella lettura di alcune questioni fondamentali per la vita degli uomini; e in particolare nel confronto con la scienza, sia come “teoria” che nelle sue implicazioni “pratiche”, sia a partire da categorie strettamente teologiche (lettura “sapienziale”, che richiede la fede) che da categorie filosofiche (lettura “culturale”, che impegna di per sé solo la ragione), purché non siano in contrasto con la Rivelazione e la Tradizione;[1] da questa posizione del Magistero derivano poi necessariamente anche delle richieste/proposte rivolte esplicitamente ai teologi;

— per “scienza” intenderò una forma di conoscenza che procede con metodi “dimostrativi” dal punto di vista logico e, quando si richieda, “documentabili” dal punto di vista sperimentale;[2] una nozione di scienza entro la quale colloco anche la scienza come oggi la intendiamo, sia nella sua versione di scienza logico-formale (come la matematica) che in quella di scienza osservativa (come le scienze della natura), e anche quella scienza sui generis, per la sua natura di disciplina fondata su un dato rivelato e sulla tradizione, che è la teologia.

Vorrei ora procedere secondo il seguente ordine:

— In primo luogo fare alcune osservazioni sull’approccio della coscienza teologica secondo il Magistero recente (§2.1);

— In un secondo momento vedere come il Magistero, in particolare con Giovanni Paolo II, si è servito della chiave di lettura che emerge da tale coscienza teologica per accostare la questione intorno alla scienza (§2.2);

— Successivamente accennare al percorso epistemologico e metodologico che si riscontra oggi nell’ambito delle scienze, con le sue istanze logico-metafisiche (§3);

— Infine accennare alla provocazione epistemologica, che emerge dalla stessa coscienza teologica espressa dal Magistero, nei confronti della teologia (§4).

2. L’approccio della coscienza teologica

2.1. Il messaggio “filosofico” del Magistero recente

Il recente Magistero della Chiesa, soprattutto quello pontificio di Giovanni Paolo II prima, e di Benedetto XVI ora, non si limita a trattare problematiche che sono di interesse solo per chi è credente, in quanto esclusivamente attingibili presupponendo la fede teologale, ma è ormai particolarmente impegnato con le grandi “questioni filosofiche”.[3] E questo perché una risposta relativista, in qualche modo agnostica, o scettica a queste ultime

— non solo finirebbe per rendere impossibile una vera “fede”, cattolicamente intesa,[4] e una vera “teologia”, in quanto negherebbe la capacità della “ragione” di conoscere qualcosa di reale e oggettivo (vero), e quindi la stessa “filosofia” come forma di conoscenza (questa è stata sempre una preoccupazione del Magistero in vista di un corretto rapporto tra “ragione” e “fede”, tra “filosofia” e “teologia”), ma

— finirebbe per compromettere la stessa “vivibilità” della società degli uomini e la loro vita individuale (e questa è una preoccupazione che si è accentuata particolarmente nel Magistero recente[5] che si rivolge con determinazione particolare a tutti gli uomini).

La vera “novità”, se così possiamo chiamarla, del Magistero recente sta nell’avere evidenziato con particolare insistenza, rivolgendosi perciò a tutti gli uomini, questo secondo aspetto del nesso inevitabile tra alcuni “nodi teorici” (filosofici: epistemologici ed etici) e la concreta “vivibilità” o “invivibilità” della stessa esistenza individuale e sociale nella comunità umana (casa, città, nazione, mondo globale). In tal modo il riferimento a determinati “contenuti di conoscenza” e a determinati “valori etici” non può essere più percepito come richiamo esterno, facoltativo e moralistico espresso da un’“autorità” (che può essere riconosciuta o meno), ma entra a far parte di un “giudizio” sui fatti della storia presente e sulla natura delle cause di alcune delle sue contraddizioni più rilevanti. Si tratta di un modo di leggere la storia “odierno” e “credibile” che Giovanni Paolo II ha in un certo senso inaugurato, introducendo un modo di proporre il Magistero che lo ha liberato da quello stile un po’ distante e asettico di un tempo, rendendolo più afferrabile come significativo per l’uomo di oggi. E Benedetto XVI sta proseguendo nella stessa strada ponendo la questione della “ragione” come base per il “dialogo” a tutti i livelli (interumano, interreligioso, interculturale, politico-internazionale, ecc.).

In sintesi il messaggio chiaramente lanciato dal Magistero odierno è duplice:

1. da un lato esso si impegna su un “giudizio storico” che constata la progressiva diminuzione del grado di “vivibilità” della presente società degli uomini (secondo le diverse forme in cui essa si attua in Occidente e in Oriente, al Nord e al Sud, in un mondo globalizzato), sia a livello individuale che comunitario;[6]

2. dall’altro lato esso afferma che questa “perdita di vivibilità” è da riconoscere come “effetto” di una “causa” e non è né casuale né ineluttabile.[7] L’avere rimosso alcuni fondamenti “filosofici” – quindi “di ragione” e solo per accidens anche “di fede” – alla base della cultura che regge la società degli uomini, ne ha determinato la progressiva minore vivibilità. Tali fondamenti filosofici sono una “condizione necessaria” quindi indispensabile, anche se evidentemente non “sufficiente”: la loro attuazione rimane comunque affidata alla libera scelta dell’uomo (volontà) oltre che alla sua capacità di ri-conoscerli (intelletto, ragione); dalla sola conoscenza non segue socraticamente l’automatica scelta del bene!

Tali presupposti filosofici, di ordine logico, metafisico, etico sono stati considerati “ingenui” (e non senza ragioni al tempo di una scolastica decadente e inefficace) e quindi non accettabili dal pensiero moderno e perciò, alla fine respinti: tuttavia oggi si può constatare esperienzialmente come il loro venir meno sia alla base di una crisi globale della convivenza civile tra gli uomini e dello stesso equilibrio esistenziale della persona. Dunque, secondo l’indicazione del Magistero, essi vanno opportunamente e adeguatamente ritrovati:

— in un primo momento almeno assunti come “ipotesi provvisoria” sulla quale fondare la convivenza umana (per una sorta di necessità di fatto: nelle emergenze si superano le divisioni di qualsiasi natura e si pensa ai soccorsi),

— in un secondo momento fondati teoreticamente in forma “non ingenua”, ma rigorosa, diciamo pure “scientifica”. Aggiungerei che proprio il metodo scientifico oggi ha qualcosa da dirci in proposito. Mi soffermerò su questo, in seguito, affrontando l’approccio della scienza (cfr. infra, §3).

In particolare le grandi questioni “fondazionali” evidenziate dal Magistero e proposte urgentemente all’attenzione degli intellettuali, come pure dei governanti e dei legislatori, e di tutti gli uomini sono almeno due:

1. quella di una corretta concezione della “ragione” e con essa della “verità” (sul piano teoretico);[8]

2. e quella della “legge morale naturale” (sul piano pratico), non di rado divenuta desueta anche negli ambienti cattolici, e i loro mutui intrecci.[9]

Sono temi, evidentemente, troppo importanti per essere considerati solo come oggetto di discorsi “alla moda” (un vezzo che rappresenta sempre una tentazione per gli intellettuali e perfino per i teologi che vogliano essere “politicamente corretti” e sempre alla ribalta) e che richiedono, al contrario, di essere accostati molto seriamente, in particolar modo da coloro che lavorano negli ambiti universitari, della ricerca e della trasmissione del sapere.[10] Se non si recuperano questi fondamenti il “dialogo” oggi tanto auspicato – tra popoli, religioni, culture, ecc. – finisce per bloccarsi, e la stessa democrazia[11] diviene di fatto sempre più formale, apparente, ultimamente inattuabile…

In particolare la “coscienza teologica” espressa dal Magistero afferma alcune verità che, pur essendo state anche “rivelate”, sono raggiungibili pure per “via razionale” e invita gli uomini di cultura a ritrovarle in certo modo “scientificamente” oggi.[12] Scientificamente parlando esse possono essere considerate al momento, almeno provvisoriamente, come ipotesi di lavoro “irrinunciabili” (un tempo si sarebbe detto “evidenti”), la cui validità potrà almeno essere corroborata dall’esperienza e, col tempo, meglio giustificata anche teoricamente. Credo che, ai nostri giorni, il punto di incontro tra gli uomini di scienza e di cultura, su questi temi debba esserev oggetto di una riflessione razionale possibile e comune a tutti, indipendentemente dalle convinzioni ideologiche o religiose. Si tratta di compiere un lavoro di «risanamento della ragione come ragione».[13]

Va detto, per inciso, che in questo il patrimonio della tradizione filosofico-teologica cristiana ha, obiettivamente, un contributo unico da dare anche per orientare la ricerca razionale filosofico-scientifica ad identificare/dimostrare alcune ipotesi/tesi irrinunciabili all’interno dello statuto epistemologico proprio di ciascuna disciplina.[14] Tuttavia la questione della difesa della ragione, e del suo «risanamento», oggi, non è più solo un problema dei teologi, dei filosofi credenti,[15] o più in generale dei fedeli che intendono mantenersi in linea con il Magistero della Chiesa, ma è un problema in qualche modo scientifico: la domanda è «se e come la verità possa tornare ad essere “scientifica”».[16]

Dopo la parabola (ascendente e discendente) del rapporto tra fede e ragione (come “abito” e “facoltà” umani), e quindi tra teologia e filosofia (come “discipline”), descritto, nei suoi passaggi principali, da Giovanni Paolo II nel IV capitolo della Fides et ratio, la ragione, e con essa la filosofia esce rinunciataria, relativista e nichilista.

«Conseguenza di ciò è stato l’offuscamento della vera dignità della ragione, non più messa nella condizione di conoscere il vero e di ricercare l’assoluto».[17]

E la fede, e con essa la teologia, ne risentono di conseguenza, divenendo inevitabilmente più “fideiste” e quindi meno cattoliche.

Benedetto XVI, fino dal tempo in cui era cardinale, aveva focalizzato la questione della crisi della ragione e quindi della filosofia e della cultura del nostro tempo, affermando che

«Questo relativismo, che oggi, quale sentimento base della persona “illuminata”, si spinge ampiamente fin dentro la teologia, è il problema più grande della nostra epoca».[18]

Ma questo è stato per lungo tempo un problema che veniva considerato principalmente come interno al solo mondo cattolico e che non riguardava più di tanto né la sfera della “cultura civile”, né tanto meno il “mondo della scienza” che potevano procedere senza occuparsene.

La sfera civile si poteva reggere senza porre la questione della ragione e della verità oggettiva (dandola in qualche misura per scontata come un’eredità comune che si stava però esaurendo progressivamente, ma di questo esaurirsi non ci si preoccupava più di tanto):

— o perché l’ideologia, fosse atea o rivestita di una copertura religiosa, imposta con la forza di un potere coercitivo ne sostitutiva le argomentazioni (nelle aree rette da regimi totalitari atei o teocratici), prendendo il posto della verità;

— o perché le regole di una democrazia sempre più basata sulla captatio del consenso sembravano sufficienti a sostituire quelle argomentazioni (nelle aree dei paesi “liberi”) rimpiazzando la verità con l’“opinione della maggioranza” e con la “convenzione sociale”.[19]

In entrambi i casi, comunque, veniva negata esplicitamente o tacitamente la possibilità di una “oggettività” della “verità” attingibile dalla ragione (sul piano della conoscenza), e della “natura” dell’uomo (sul piano dell’essere).

In mancanza di una tale oggettività, riconoscibile almeno in alcuni aspetti come comune a tutti, questa veniva sostituita con il surrogato della “oggettivazione”

— ideologica (nel primo caso) o

— democraticamente consensuale (nel secondo caso).

E questo sembrava poter essere sufficiente a garantire, più o meno accettabilmente, la vita degli uomini e dei popoli. Certo gli eccessi delle dittature apparivano condannabili; così come l’eccessiva sregolatezza delle democrazie troppo permissive non sembravano giovare del tutto alla loro stabilità, ma in qualche modo si è andati avanti. E lo si è potuto fare, almeno nel mondo occidentale cristianizzato, grazie ad un’eredità non ancora del tutto consumata, che era insieme

— debitrice, alla filosofia greca e alla teologia medioevale, di una consuetudine ad una concezione e ad un uso della ragione penetrata nella cultura e connaturale ai costumi dei popoli; e

— debitrice al diritto romano che aveva evidenziato, con Cicerone, la “legge naturale” come fondamento del diritto. Ed è proprio la legge naturale il secondo grande pilastro che insieme a quello della verità deve essere recuperato per risanare la ragione sia nella sua dimensione teoretica che pratica, secondo l’indicazione del Magistero.[20]

2.2. L’approccio del Magistero recente alla scienza

Abbiamo già rilevato come prima del Vaticano II l’attenzione del Magistero si è dovuta concentrare, per ovvi motivi storici e dogmatici, sui problemi del rapporto fede-ragione piuttosto che sul tema delle scienze.[21]

Per quanto riguarda il tema della scienza in senso stretto, possiamo osservare che nei testi del Magistero precedenti a Giovanni Paolo II, compresi quelli del Vaticano II,[22] si notano almeno tre atteggiamenti:

1. un atteggiamento di meraviglia che attraverso i risultati delle scienze viene destato nel credente:

a. di fronte al creato per il suo ordine governato da leggi perfette e belle e quindi alla sapienza ordinatrice di un Creatore al quale esse ragionevolmente rimandano; e

b. di fronte all’uomo che è stato reso capace, dal medesimo Creatore, di scoprirle e utilizzarle ad un livello così sorprendente;

2. un atteggiamento di attenzione etica, preoccupata dalle conseguenze sull’uomo e sul creato dell’azione dell’uomo che si serve della tecnologia che la scienza gli consente di realizzare, sia in ordine alle applicazioni che alla stessa ricerca. In conseguenza di questa preoccupazione emerge

3. un atteggiamento di auspicio che vi sia un cammino concorde di scienza ed etica, e un dialogo maggiormente disteso tra scienza e fede.

Con Giovanni Paolo II inizia ad esplicitarsi con sistematicità un lavoro di raccordo tra l’etica e l’epistemologia, tra l’antropologia e la metafisica, a partire dalla lettura delle contraddizioni dell’esperienza dell’uomo e della società. Si tratta di una sistematica applicazione di un metodo, che diviene con lui proprio del Magistero, che parte dalla lettura “fenomenologica” dell’esperienza per interpretarne le contraddizioni come “effetti” inevitabili di “cause” concorrenti a produrli, che risiedono nei principi “teorici”.

Egli ha aperto e percorso, in questi anni, una strada che ci consente di leggere adeguatamente il cammino delle scienze odierne e della riflessione epistemologica e sociologica su di esse. Il suo metodo consiste nel tenere presenti contemporaneamente gli aspetti esterni e quelli interni alle scienze e le loro reciproche connessioni. Il suo insegnamento su tali tematiche:

— dall’esterno della scienza

a. parte dal dato dell’esperienza, al livello sia personale che sociale

b. e giunge a rintracciare i nodi teorici delle contraddizioni rilevate nell’esperienza.

— Dall’interno di essa suggerisce di individuare quei problemi di ordine logico e fondazionale che finiscono per bloccare lo stesso svilupparsi delle teorie scientifiche, indicando i limiti intrinseci del modello di razionalità finora considerato valido e ricercando una via costruttiva di una “razionalità più ampia”, aperta anche ad una dimensione che possa trascenderla, come quella della fede. E in questa linea sta procedendo anche Benedetto XVI.

Se il percorso che parte dall’esterno è, in certo senso una “via negativa”, e solo sintomatica di uno stato di disagio che non riesce però a sanare, il percorso che parte dall’interno è invece “positivo”, nel senso che si propone di essere “costruttivo” di questa nuova razionalità e non appena indicativo di ciò che non va.

— La via esterna, per quanto riguarda la scienza, è percorsa soprattutto nel “Discorso a scienziati e studenti”, pronunciato a Colonia il 15 novembre 1980, che costituisce un punto di riferimento anche per altri discorsi successivi del pontificato di Giovanni Paolo II su questo argomento.[23]

— La via interna comincia ad apparire più esplicitamente in alcuni testi più recenti, anche perché è di questi ultimi anni una riflessione epistemologica che mostra più evidenti segni di apertura in tal senso. Sembra che, ultimamente, l’atteggiamento antimetafisico cominci ad incrinarsi e a cedere (e non come via di fuga irrazionalistica), proprio per le necessità intrinseche allo sviluppo ulteriore dello stesso metodo scientifico. E questo costituisce un elemento di novità di notevole rilievo, anche se per ora interroga da vicino solo i settori più innovativi della ricerca scientifica e non intacca, almeno apparentemente, i settori più “tradizionali” che vivono in qualche modo di rendita secondo un’epistemologia riduzionista e chiusa.

2.2.1. Il problema della tecnica in quanto “scienza applicata”

Innanzitutto nel discorso di Colonia viene operata una distinzione di principio tra “scienza pura” e “scienza applicata” (tecnica), a differenza di molta epistemologia contemporanea che, sulla scia del relativismo, ha negato alla scienza un valore conoscitivo, riducendo la scienza anche più astratta ad una “tecnica teorica” per la manipolazione di dati e numeri che servono solo a fare previsioni e costruire macchine, ma non a “conoscere” nel senso di “spiegare” e “comprendere” l’universo nelle sue reali cause.

Il discorso identifica poi due livelli di crisi:

— uno riguardante la scienza come “tecnica” e

— l’altro riguardante la scienza come “teoria” e stabilisce una precisa “connessione” tra di essi.[24]

L’attuale “crisi di legittimazione” della scienza trae la sua origine dall’avere identificato lo scopo esauriente della scienza, come tale, con l’opera tecnologica. In questa opzione utilitaristica sono contenute implicitamente due prese di posizione: l’una “etica”, l’altra “epistemologica”.

— Sul piano etico:

«Se la scienza è intesa essenzialmente come un “fatto tecnico”, allora la si può concepire come ricerca di quei processi che conducono ad un successo di tipo tecnico» (n. 3)

e, puntando su una logica che identifica il successo tecnico con il valore per l’uomo, si è portati ad identificare il “bene” con “ciò che è tecnicamente possibile”.

— Sul piano epistemologico si assume che

«Come conoscenza ha valore quindi ciò che conduce al successo. Il mondo, a livello di dato scientifico, diviene un semplice complesso di fenomeni manipolabili, l’oggetto della scienza una connessione funzionale, che viene analizzata soltanto in riferimento alla sua funzionalità. Una tale scienza può concepirsi soltanto come pura funzione. Il concetto di verità diventa quindi superfluo, anzi talvolta viene esplicitamente rifiutato. La stessa ragione appare, in definitiva, come semplice funzione o come strumento di un essere che trova il senso della sua esistenza fuori della conoscenza e della scienza, nel migliore dei casi nella vita soltanto» (ibidem)

in una dimensione che viene catalogata come istintiva, sentimentale, comunque irrazionale. E in questa dimensione irrazionale vengono collocate le questioni più importanti come quella del “significato”, dello “scopo” delle cose e della vita e del “fondamento” della conoscenza e così via.

Di conseguenza si rileva come non solo la scienza, ma tutta

«La nostra cultura, in tutti i suoi settori, è impregnata di una scienza, che procede in modo largamente funzionalistico» (ibidem).

A questo punto del discorso viene stabilito anche il “raccordo” tra l’aspetto etico che riguarda lo scopo della scienza e quello epistemologico che riguarda il suo valore conoscitivo e questo è il nodo centrale. Si passa in tal modo dal problema della tecnica, in quanto scienza “applicata”, alla considerazione del problema della scienza come “teoria” e “forma di conoscenza”.

2.2.2. Il problema della scienza in quanto “teorica”

La chiave di volta che sta al centro e raccorda l’analisi della scienza come tecnica con la questione dei presupposti epistemologici della scienza come teoria, sta nell’inevitabilità del nesso tra

— la posizione convenzionalitstica e utilitaristica, che nega la nozione classica di verità oggettiva

— e l’eitca del successo come scopo ultimo della scienza basata sul principio secondo il quale è bene tutto ciò che è tecnicamente possibile.

La prima finisce per negare alla scienza la possibilità di accedere a qualunque forma di conoscenza di verità e di conseguenza anche la sua autonomia e libertà rispetto al potere, e la seconda, nelle sue conseguenze estreme giunge a calpestare anche la dignità dell’uomo e a rendere la società progressivamente invivibile.

«Abbiamo finora parlato prevalentemente della scienza che sta a servizio della cultura e conseguentemente dell’uomo. Sarebbe tuttavia troppo poco limitarsi a questo aspetto. Proprio di fronte alla crisi dobbiamo ricordarci che la scienza non è solo servizio per altri fini. La conoscenza della verità ha senso per se stessa. Essa è attuazione di carattere umano e personale, un bene umano di prim’ordine. La pura “teoria” è essa stessa una modalità della “prassi” umana (…).

Abbiamo parlato di “crisi di legittimazione della scienza”.

Certo, la scienza ha un suo senso e una sua giustificazione quando la si riconosce capace di conoscere la verità e quando la verità è riconosciuta come un bene umano. Allora si giustifica anche l’esigenza della libertà della scienza; in che modo infatti potrebbe realizzarsi un bene umano, se non mediante la libertà? La scienza deve essere libera anche nel senso che la sua attuazione non venga determinata da fini immediati, da bisogni sociali o da interessi economici. Questo non significa però che per principio debba essere separata dalla “prassi”. Soltanto che, per poter influire efficacemente sulla prassi, essa deve ricevere la sua prima determinazione dalla verità, e quindi essere libera per la verità. Una scienza libera e asservita unicamente alla verità non si lascia ridurre al modello del funzionalismo o ad altro del genere, che limiti l’ambito conoscitivo della razionalità scientifica» (n. 5).[25]

2.2.3. Dalla via “esterna” alla via “interna”

Attraverso questa via viene riproposta la parola “verità”: con questo percorso dall’esterno della scienza, tuttavia, non si è ancora in grado di costruire “dimostrativamente” un’epistemologia (e più in generale una filosofia) in cui la nozione di verità, in senso classico e pieno, trovi uno spazio e quindi un significato, ma si giunge a suggerire, quasi a “costringere” a prendere atto, mediante indizi fattuali, della necessità di elaborare una teoria della scienza in cui la parola “verità” abbia un valore non convenzionalitstico.

Il riferimento alla concezione medioevale delle scienze e dell’unità del sapere è, a questo punto, reso particolarmente significativo (nel discorso di Colonia), dal momento che, in tale sintesi la parola “verità” ha la sua giusta e piena collocazione. Occorre, però, integrare questo metodo esterno con l’attenta analisi interna della metodologia della scienza odierna alla ricerca dei suoi “fondamenti logici e ontologici”.

Merita, a questo punto riportare anche una citazione da un testo più recente:

«Oggi, “una grande sfida ci aspetta… quella di saper compiere il passaggio, tanto necessario quanto urgente, dal fenomeno al fondamento. Non è possibile fermarsi alla sola esperienza;… è necessario che la riflessione speculativa raggiunga la sostanza spirituale e il fondamento che la sorregge” (Enciclica Fides et ratio, n. 81). La ricerca scientifica si basa anch’essa sulle capacità della mente umana di scoprire ciò che è universale. Questa apertura alla conoscenza introduce al significato ultimo e fondamentale della persona umana nel mondo (cfr. Enciclica Fides et ratio, n. 81)».[26]

Ciò che è interessante e nuovo per la mentalità scientifica è il fatto che ormai questa “apertura” non costituisce più solo oggetto di un’esortazione o di un’indicazione proposta dall’esterno della scienza, ma comincia a segnalarsi come una necessità interna, indispensabile per la “fondazione” di un sapere scientifico che non può dimostrare al proprio interno di essere autosufficiente: né “completo”, né “coerente”.[27]

3. L’approccio della scienza

A questo punto diviene necessario chiedersi se c’è qualche riscontro di tutto questo nell’ambito delle scienze.

Il mondo della scienza è stato guidato dai suoi metodi di “oggettivazione”, forse sempre meno capaci di fornire una conoscenza oggettivamente vera della realtà; ma questo non aveva troppa importanza, in fin dei conti, perché ciò che contava era il potere predittivo delle teorie scientifiche e l’efficacia delle loro applicazioni tecnologiche: il fatto che la scienza potesse formulare delle teorie vere o almeno “verosimili” (Popper), o solo “strumentalmente utili” (Kuhn), rimaneva una questione secondaria (Feyerabend) da lasciare ai filosofi, ma del tutto eludibile per gli scienziati.[28] Avanzava quella che Giovanni Paolo II ha chiamato una concezione «funzionale» della scienza.

Oggi ci troviamo di fronte ad un modello di scienza “bipolare”, dove i due poli sono costituiti dalla matematica con la logica formalizzata da un lato, e dalle scienze sperimentali dall’altro: la matematica/logica fornisce alcuni fondamenti per le scienze fisiche e più in generale sperimentali, ma essa, a sua volta

— non viene fondata su una scienza superiore

— né è in grado, da sola, di giungere a fondarsi su dei principi primi “irrinunciabili” e “veri”, ma solo su dei principi convenzionali.

In questa situazione la scienza non riesce né ad essere un sistema completamente dimostrativo, né a dimostrare non solo la propria verità, ma neppure la propria coerenza interna (Gödel[29]). Per questo oggi quello che i matematici hanno chiamato “il problema dei fondamenti” sta acquistando, dal punto di vista epistemologico, sempre più terreno, perché pone le condizioni per la prosecuzione della stessa impresa scientifica. Al di là dell’opzione convenzionalista il mondo scientifico non è incline a rinunciare scetticamente all’impresa conoscitiva.

3.1. Una nuova situazione

Che cosa c’è di nuovo da qualche tempo? Da qualche tempo stiamo assistendo ad un lavoro di ricerca dei fondamenti che avviene, di per sé, indipendentemente da una motivazione religiosa o filosofica e che nasce all’interno del mondo scientifico.

— Nell’ambito delle scienze logico-matematiche penso alle questioni che sono sorte intorno al problema dei fondamenti della matematica e che si stanno ampliando verso l’ontologia.

— Nell’ambito delle scienze fisiche, chimiche, biologiche, ecc., penso ai problemi della complessità dei sistemi che esse studiano, e che stanno conducendo, in chiave odierna, ad accostare anche l’antica teoria logico-metafisica dell’analogia-partecipazione e anche in certa misura l’ilemorfismo attraverso la comparsa della nozione di forma come informazione.

— Nell’ambito delle scienze cognitive e della teoria dell’informazione con le sue implicazioni cibernetiche, al problema del rapporto mente-cervello, mente-corpo, intelligenza-macchina che pone la questione di un confronto con la antica teoria dell’astrazione che richiede un soggetto capace di compiere una operazione immateriale per ottenere l’universale astratto immateriale.

Sono nate anche nuove discipline come, ad esempio, l’ontologia formale[30] che si propone di formalizzare simbolicamente la metafisica del senso comune e altre metafisiche, sia per fini ingegneristici che per formulare e comunicare con un linguaggio più rigoroso alcune delle classiche questioni filosofiche.

Nell’ambito delle scienze vi sono, dunque, diversi segnali interessanti che possono portare ad un incontro con la filosofia della natura, la logica e la metafisica aristotelico-tomista, in particolare.

Le scienze si trovano, allora, ad affrontare due ordini di problemi: l’uno è quello dell’ampliamento del loro “oggetto formale”, conseguente all’esigenza di ampliare l’estensione e la comprensione del loro “oggetto materiale”, l’altro è quello dei loro “fondamenti logici e ontologici”.[31]

3.1.1. Il problema dell’ampliamento dell’oggetto

L’esigenza di ampliamento è imposta alle scienze, sia dai nuovi metodi di approccio al loro oggetto (metodi nuovi sorti a causa dell’insufficienza e dall’inadeguatezza dei metodi già impiegati in passato per affrontare nuovi campi di indagine), sia dallo stesso problema dei fondamenti, per la soluzione del quale occorre una revisione di alcuni aspetti di metodo e di alcuni presupposti che risultano troppo restrittivi.

— La crisi del “vecchio metodo” riduzionista, di fronte al nuovo affronto del problema tutto-parti sorto con la teoria della complessità ne è un esempio.

— Un altro esempio è offerto dalla teoria dell’informazione che introduce un elemento immateriale (l’informazione) nel contesto inizialmente materialista delle scienze fisiche, chimiche e biologiche, suggerendo un confronto con la dottrina aristotelica della forma.

— Il problema del rapporto mente-corpo apre una serie di interrogativi su quale possa essere un modello cognitivo adeguato a trattarlo, e suggerisce un confronto con la teoria cognitiva aristotelico-tomista dell’astrazione,è un altro esempio ancora. E così via.[32]

Le risposte a problemi del genere non rimangono, poi, sul piano puramente teorico, ma hanno anche una notevole ricaduta tecnologica nel campo dell’informatica e della cosiddetta intelligenza artificiale, e questo consente una certo grado di verifica pratica della loro adeguatezza e una motivazione concreto a promuovere la ricerca in questa direzione.

3.1.2. Il problema dei fondamenti

Fino a qualche decennio fa per “problema dei fondamenti” si intendeva quasi esclusivamente il problema dei fondamenti della matematica; e questo si riduceva alla ricerca di un fondamento logico-formale della teoria dei numeri nell’ambito della logica simbolica. Per poter essere affrontato adeguatamente questo problema, però, incominciò a richiedere un primo ampliamento della stessa matematica: con Cantor la matematica ampliò il suo oggetto, passò dai “numeri” agli “insiemi”.[33]

Ma la nozione di “insieme” è più “ampia” e comprensiva di quella di numero, è in certo senso più prossima a quella metafisica di “ente”. La nozione di “insieme” è già sufficiente a far insorgere dei paradossi se si pretende di racchiuderla in una sola definizione (univocità). Per rimuovere tali paradossi occorre distinguere diversi “tipi” di insieme, rispondenti a modi di essere diversificati: in questa direzione si è mossa la teoria dei “tipi” di Russell e, in maniera ancora più semplice e geniale, la diversificazione tra “classi proprie” e “classi improprie” di Gödel.[34] Per chi ha qualche conoscenza della logica e della metafisica aristotelico-tomista e della matematica è difficile non confrontare queste nozioni con quelle di “genere universale” e di “trascendentale”.[35] Si direbbe che questo rappresenta un passo significativo di ampliamento della matematica verso una logica che include una teoria dell’analogia e verso un’ontologia. Non a caso, recentemente, è nata quella nuova disciplina che va sotto il nome di ontologia formale. Essa è sorta per esigenze legate all’informatica, alla logica e alle scienze cognitive, ma la sua rilevanza filosofica è evidente.

In questo lavoro di ampliamento delle scienze in vista di una teoria dei fondamenti di tipo ontologico-formale, ci troviamo a dover affrontare tre ordini di problemi:

  1. Il primo problema è quello di una “modellizzazione” per quanto possibile fedele delle teorie aristotelico-tomiste dell’analogia,[36] della causalità e più in generale della ontologia del “senso comune”: si tratta di tradurre in un linguaggio formalizzato simbolico le corrispondenti nozioni e teorie della filosofia greca e medioevale, in modo da consentire il loro impiego e la loro verifica ed eventualmente un loro perfezionamento nell’ambito scientifico odierno.
  2. Un secondo problema è quello della dimostrazione dell’esistenza di un fondamento primo, che consenta di evitare un ricorso all’infinito nella catena dei sistemi assiomatici: questo tipo di risultato richiede inevitabilmente una teoria dell’analogia formalizzata. Infatti non si può dare una gerarchia dei sistemi formali se questi sono tutti dello stesso genere, perché si ricade nelle limitazioni imposte dai teoremi di Gödel. Il sistema dei principi fondanti deve essere di “tipo”, esterno alla classe dei sistemi che da esso dipendono, come la classe universale è di tipo diverso dagli insiemi che contiene.
  3. Un terzo problema è quello della fondazione del “realismo”: il passaggio dal piano logico a quello ontologico deve essere postulato come principio irrinunciabile o può essere dimostrato, nel senso che l’ente logico richiede come principio primo fondante l’ente reale extra-mentale?

Queste per ora non sono che domande – sono le domande filosofiche di sempre che emergono dalle scienze, come del resto la prima metafisica greca emerse dall’insufficienza della filosofia dei fisici di allora – e la ricerca odierna in questo campo potrebbe risultare rilevante oltre che per le scienze anche per la filosofia e quindi anche per la teologia.

E come le scienze logico-matematiche, anche le altre discipline possono porsi a lavorare sui loro fondamenti e contribuire alla elaborazione della metafisica con i loro metodi e i loro linguaggi. È l’invito che possiamo raccogliere dalle indicazioni del Magistero dalle quali siamo partiti, in questa libera e non poco coraggiosa riflessione, e che ci auguriamo possa giungere a dei buoni risultati. Ed è anche l’invito di quegli uomini di scienza che hanno più profondamente pensato ai fondamenti, come documenta questa riflessione di Gödel con la quale vorrei concludere questa paragrafo:

«Per quel che concerne le conseguenze filosofiche dei risultati che esaminiamo, io non credo che siano mai state discusse adeguatamente o semplicemente notate».

Qui Gödel sta parlando (quasi in un inciso), dell’esistenza di

«proposizioni matematiche che sono valide in senso assoluto, senza alcuna ipotesi ulteriore. Proposizioni cosiffatte devono esistere, perché altrimenti non esisterebbero neppure i teoremi ipotetici. (…)

Naturalmente il compito di assiomatizzare la matematica in senso stretto differisce dalla concezione ordinaria della assiomatica in quanto gli assiomi non sono arbitrari, ma devono essere proposizioni matematiche corrette, nonché evidenti senza dimostrazione.

Non c’è via di fuga dall’obbligo di assumere certi assiomi o certe regole di inferenza come evidenti senza dimostrazione».[37]

4. Alcune implicazioni per il rapporto teologia-filosofia-scienza

È giunto, ora, il momento di vedere almeno per accenni in che senso si possa ritenere che la teologia possa intervenire in vista di un “risanamento della ragione filosofica” e quale sia il tipo di teologia che possa rendersi utile per questo scopo. In effetti la filosofia dovrebbe precedere la teologia, in quanto è quest’ultima a servirsi della prima per dedurre dai contenuti della Rivelazione, congiunti alle premesse di ragione, le sue conclusioni teologiche (sillogismo teologico).[38]

Tuttavia, in un tempo in cui la filosofia attraversa una crisi epistemologica, la teologia può aiutarla a ritrovare la strada per recuperare alcuni fondamenti. Ma quale teologia può farsi carico di offrire questo aiuto?

Sommariamente mi sembra si possano indicare tre strade che la teologia sembra trovarsi a poter percorrere: [39]

— quella “narrativa”, che, pur essendo forse quella oggi più percorribile, non pare poter offrire un grado di sistematicità tale da dare suggerimenti ad una filosofia-scienza alla ricerca di solidi fondamenti;

— quella di una teologia che potremmo chiamare “autonoma”, in quanto cerca di costruire da se stessa, in actu exercito, la filosofia che le serve per elaborarsi sistematicamente; e, infine,

— quella della teologia “tradizionale”, che fa riferimento alle basi filosofiche della filosofia agostiniana o tomista, acquisendole come un punto di partenza che non tocca, di per sé, al teologo fondare.

Si è anche rilevato come sia molto difficoltosa, se non quasi del tutto impraticabile, la seconda via, almeno se la si intende come un ripartire da zero; tuttavia, essa risulta in certo modo percorribile, se si incontra con la terza strada e da essa sa trarre le indicazioni per la costruzione della “sua” filosofia. In tal caso il teologo assume, insieme alla propria funzione teologica, anche una “funzione filosofica di supplenza”, nei confronti del filosofo che non sa o non intende fornirgli gli strumenti di lavoro.

È la terza via, allora, a poter dare dei suggerimenti alla seconda, nel senso che la teologia che si colloca in questo atteggiamento, “crede” nella verità dell’impianto filosofico sul quale si appoggia e, implicitamente invita i ricercatori degli ambiti filosofico-scientifici ad indagare, con i loro metodi, per dare ad essa una sistemazione scientificamente valida al giorno d’oggi. La teologia tradizionale, allora, può venire in soccorso della “filosofia-scienza” nel senso di offrire una elaborazione filosofica, sorta in ambito greco-giudeo-cristiano, che ha una portata tale da potersi validamente confrontare con le domande delle scienze odierne, suggerendo loro degli obiettivi da perseguire, dei risultati da dimostrare, delle leggi da formulare, un po’ come la meccanica di Archimede fu in grado di suggerire dei risultati di geometria, che egli riuscì, poi, a ritrovare dall’interno della geometria stessa, con i metodi formali propri di quella disciplina.

Rivolgendo lo sguardo al passato di qualche decennio fa sembra di poter rinvenire un suggerimento simile a questo in alcune pagine di A.D. Setrillanges, dove egli tratta della questione di quella che al suo tempo veniva chiamata la “filosofia cristiana”.[40]

«Si può chiamare filosofia cristiana una conoscenza, che deliberatamente, consciamente, pur non valendosi che di principi razionali e di metodi filosofici, si abbandona alle ispirazioni che abbiamo riconosciuto emanare dai dogmi, lavora in contatto con essi, li considera come ipotesi feconde, si serve delle analogie che essi suggeriscono, e più di tutto, sapendoli veri, immerge la mente del pensatore nel bagno di mistero, da cui essi emergono, questo oceano battesimale, in cui la Rivelazione l’ha invitato a rinnovellarsi sino a rinascere, e attende da questa vivificazione luci sempre rinnovate, che concernono la natura stessa e il gioco normale della mente e del cuore umano».[41]

Questo modo di procedere, indubbiamente affascinante, però non fu trovato del tutto convincente, negli anni in cui fu proposto, neppure in ambito cattolico, oltre che per il fatto di non demarcare sempre con sufficiente chiarezza il confine tra filosofia e teologia, anche e soprattutto perché non sembrò sufficientemente fondativo del realismo gnoseologico e ontologico, alla luce del criticismo kantiano e post-kantiano, dell’empirismo di Hume, del soggettivismo e dell’univocismo che ne sono seguiti.

Tuttavia, oggi forse, un tale modo di considerare la storia del pensiero filosofico, pur con tutte le necessarie precisazioni, potrebbe ritrovare un nuovo interesse da parte dei teologi (che probabilmente nel tempo in cui fu proposto non poteva suscitare), anche grazie alla sua forte caratterizzazione cristocentrica, proiettata sul piano della storia della cultura.

«Senza il cristianesimo nessuna filosofia accettabile esisterebbe. Tutte quelle apparse dopo il Vangelo gli debbono il meglio di sé, e quelle che precedettero il Vangelo, per quanto utili abbiano potuto essere, incorporandovisi, non avrebbero servito a nulla da sole per la nostra civiltà».[42]

Di certo il fascino della “sapienza cristiana”, quando si percorre la strada del sapere a partire dall’alto, in senso discendente, anziché dal basso in senso ascendente, e si segue la prospettiva della partecipazione e dell’analogia, partendo

— dalla semplicità di Dio che si rifrange nella molteplicità dell’essere e del nostro conoscere, secondo la logica dei trascendentali, offrendosi a noi come realtà, essere, unità, verità e bene;

— dal mistero trinitario (teologia trinitaria) per comprendere l’essere (ontologia), il conoscere (gnoseologia) e il pensiero (logica);

— dal mistero del Verbo incarnato (cristologia) per cogliere la struttura profonda dell’uomo (antropologia) che deve essere salvato (soteriologia)

— dalla creazione e dal governo delle cose (Provvidenza) per spiegare la natura e il mondo (cosmologia)

non può non illuminare il teologo che si scopre anche, insieme, filosofo per poter essere teologo. Si tratta di un’opera di “redenzione” della ragione e della filosofia che si trova ad essere salvata in quanto già inclusa nella prospettiva teologica. Una visione sapienziale che sa farsi guida alla ricerca anche sul piano epistemologico, suggerendo certamente degli obiettivi e talvolta anche dei metodi.

Si deve ammettere, tuttavia, che un filosofo, che parte con l’habitus mentale del teologo, è tendenzialmente un teologo per se e un filosofo per accidens e la sua filosofia può apparire non sempre autonoma e del tutto convincente, soprattutto a chi non è credente. Sembra che ad altri rimanga, comunque, il compito di dare una fondazione strettamente scientifica ai suoi risultati filosofici, ma questo non esclude che filosofi-scienziati e teologi possano lavorare parallelamente e confrontarsi, purché dispongano di un linguaggio metascientifico (metafisico) comune.

Una sintesi teologica di grande rilievo, che ci sembra possa ricondursi in questa prospettiva della “seconda via”, giunta all’incrocio con la terza, è reperibile, ai nostri giorni, nel cospicuo lavoro di un teologo come Hans Urs von Balthasar. Così egli stesso descrive l’intendimento della sua opera.

«La risposta cristiana […] è contenuta nei due dogmi fondamentali della Trinità e dell’Incarnazione. Nel dogma trinitario Dio è uno, buono, vero e bello perchè è essenzialmente Amore, e l’Amore suppone l’Uno, l’Altro e la sua Unità. E se in Dio va posto l’Altro, il Verbo, il Figlio, allora l’alterità della creazione non sarà più una caduta, una perdita, ma un’immagine di Dio, pur non essendo Dio stesso».

«In vista di ciò ho tentato di costruire una filosofia e una teologia sulla base di una analogia non già di un Essere astratto, ma dell’Essere quale lo si incontra concretamente nei suoi attributi (non categoriali, ma trascendentali). E posto che i trascendentali attraversano tutto l’Essere devono essere interni l’uno all’altro. Ciò che è veramente vero è anche veramente buono, bello e uno. Appare un essere, c’è un’epifania: è bello. Con l’apparire si dona: è buono. Donandosi si dice, si svela: è vero. Così si può cominciare con un’estetica teologica: Dio appare. Appare ad Abramo, a Mosè, a Isaia, e finalmente in Gesù Cristo.

Domanda centrale: come distinguere la sua apparizione, la sua epifania tra gli altri mille fenomeni di questo mondo? Come distinguere il vero e unico Dio vivente di Israele da tutti gli idoli? Come percepire l’incomparabile gloria di Dio nella vita, nella croce, nella risurrezione di Cristo, gloria ben diversa da tutte quelle di questo mondo?

E si può continuare con una drammatica: come si confrontano la libertà assoluta di Dio in Gesù Cristo e la libertà relativa, e nondimeno reale, dell’uomo? Vi sarà una lotta mortale fra le due nella quale ognuna difenderà contro l’altra ciò che ha scelto e concepito come il Bene. Quale sarà lo sviluppo della battaglia e la vittoria finale?

Per poi finire con una logica (una teo-logica). Come fa Dio a farsi comprendere dall’uomo? Come può una parola infinita tradursi in una parola finita senza perdere il suo senso? È il problema delle due nature di Cristo. E come fa lo spirito limitato dell’uomo a cogliere il senso illimitato del Verbo di Dio? Questo sarà il problema dello Spirito Santo.

Ecco i contorni della mia trilogia: ho menzionato solo le questioni poste dal metodo, senza accennare alle risposte, perchè ciò oltrpasserebbe i limiti posti da questa conferenza introduttiva».[43]

Si tratta di un grande percorso dall’alto: dalla teologia alla filosofia che essa include. Alla filosofia-scienza, rimane in ogni caso il compito di ritrovare, dall’interno e con le proprie regole, i contenuti filosofici veri che la teologia include e accidentalmente le offre. Non solo, ma la filosofia-scienza potrà/dovrà anche entrare in tutti i dettagli filosofico-scientifici che al teologo possono non interessare direttamente, in ordine alla sua disciplina.

Vorrei concludere con le parole che Benedetto XVI ha pronunciato nel suo viaggio in Asutria che mi sembrano sintetizzare quanto ho cercato di esporre, documentandoci come il Magistero, quando sia letto con attenzione e non trascurato come qualcosa di già noto, dimostri di precorrere i tempi della cultura, aprendo una strada per la ricerca che deve essere percorsa per non perdere un’occasione storica di recupero di una unità del sapere.

«Fa parte dell’eredità europea, infine, una tradizione di pensiero, per la quale è essenziale una corrispondenza sostanziale tra fede, verità e ragione. Si tratta qui, in definitiva, della questione se la ragione stia al principio di tutte le cose e a loro fondamento o no. Si tratta della questione se la realtà abbia alla sua origine il caso e la necessità, se quindi la ragione sia un casuale prodotto secondario dell’irrazionale e nell’oceano dell’irrazionalità, in fin dei conti, sia anche senza un senso, o se invece resti vero ciò che costituisce la convinzione di fondo della fede cristiana: In principio erat Verbum – In principio era il Verbo – all’origine di tutte le cose c’è la Ragione creatrice di Dio che ha deciso di parteciparsi a noi esseri umani.

Permettetemi di citare in questo contesto Jürgen Habermas, un filosofo quindi che non aderisce alla fede cristiana. Egli afferma: “Per l’autocoscienza normativa del tempo moderno il cristianesimo non è stato soltanto un catalizzatore. L’universalismo ugualitario, dal quale sono scaturite le idee di libertà e di convivenza solidale, è un’eredità immediata della giustizia giudaica e dell’etica cristiana dell’amore. Immutata nella sostanza, questa eredità è stata sempre di nuovo fatta propria in modo critico e nuovamente interpretata. A ciò fino ad oggi non esiste alternativa”».[44]


* Dipartimento di Matematica dell’Università di Bari – Dipartimento di Teologia Sistematica della Facoltà Teologica dell’Emilia Romagna.

[1] Il possibile ampliamento alle religioni comporterebbe un più ampio affronto della “coscienza religiosa”, cioè della coscienza che esse hanno di se stesse e andrebbe al di là di ciò che propriamente si dice “teologico”, in quanto basato sulla Rivelazione giudaico-cristiana e sulla tradizione della Chiesa. Base comune del dialogo interreligioso deve essere comunque la ragione. Sulla questione della ragione e del dialogo interreligioso si veda il celebre discorso di Benedetto XVI a Regensburg (12.9.2006). Alcune delle tematiche riguardanti la natura della religione e le condizioni del dialogo sono state affrontate, da parte mia, nello studio Che cos’è una religione. Laconcezione di Tommaso d’Aquino di fronte alle domande odierne, Cantagalli, Siena 2006. Segnalo per una messa a fuoco filosofica della nozione di religione anche lo studio di P.J. Dougherty, The Logic of Religion, The Catholic University of America Press, Washington D.C. 2003 (tr. it. Cantagalli, Siena 2007).

[2] Prendo qui i termini “dimostrativo” e “documentabile” nel senso comunemente accettato in ambito scientifico rinviando agli studi epistemologici specifici per un un’analisi approfondita.

[3] In effetti il Magistero fin dai primi secoli si è occupato di questioni filosofiche, ma lo ha fatto principalmente in relazione al rapporto tra fede e ragione e tra filosofia e teologia. Una lettura della storia di questo rapporto nei suoi nodi fondamentali è stata riproposta nei nostri anni in Fides et ratio, cap. IV.

[4] Cioè concepita come atto-abito dell’intelletto mosso dalla volontà e dalla Grazia, e non ridotta a semplice “salto nel buio” volontaristico, emozionale, sentimentale e ultimamente “senza ragioni” e senza “motivi di credibilità” (cfr. Tommaso d’Aquino, De veritate, q. 14 “De fide”).

[5] Per «recente» intendo principalmente il Magistero da Giovanni Paolo II ad oggi.

[6] È il giudizio che, sorprendendo il mondo, Giovanni Paolo II ha espresso fino dalla sua prima enciclica, la Redemptor hominis affermando che «l’uomo, pertanto, vive sempre più nella paura» (n. 15) e descrivendo e analizzando fenomenologicamente la condizione dell’uomo nel mondo odierno, facendo leva sulla comune constatazione esperienziale che è di ogni uomo e non sulla precettività etica della fede che interpella solo il credente. Questo modo di leggere e giudicare la storia è proseguito per tutto il suo Magistero e in particolare nelle sue encicliche sociali. Possiamo riconoscere nella sua formazione filosofica fenomenologica, questa inclinazione a “leggere l’esperienza” – non fermandosi però ad un livello materialista che fa riferimento alle sole “strutture”, come fa l’analisi marxista, propria del regime in cui egli ha vissuto la sua giovinezza e prima maturità – ma attingendo alla metafisica e all’antropologia e all’etica aristotelico-tomista per individuare le vere cause dei problemi e indicare le vie necessarie in vista di una loro soluzione.

[7] L’indicazione del Magistero immediatamente successiva al giudizio è quella dell’interrogarsi sulle “cause” di questa situazione di invivibilità: «Deve nascere, quindi, un interrogativo: per quale ragione questo potere, dato sin dall’inizio all’uomo, potere per il quale egli doveva dominare la terra si rivolge contro lui stesso, provocando un comprensibile stato d’inquietudine, di cosciente o incosciente paura, di minaccia, che in vari modi si comunica a tutta la famiglia umana contemporanea e si manifesta sotto vari aspetti?» (ibidem).

[8] La questione della ragione ricollocata al centro dell’insegnamento “filosofico” del Magistero dalla Fides et ratio di Giovanni Paolo II è divenuta uno dei temi centrali con Benedetto XVI a partire discorso di Regensburg, divenuto “famoso” quasi più per le polemiche pretestuose che ha involontariamente suscitato che per il valore dei suoi contenuti.

[9] È significativo rilevare come questo collegamento tra “vivibilità”, “verità” e “legge naturale” fosse emerso con largo anticipo nel pensiero di alcuni intellettuali dell’Est europeo che facevano capo a Charta 77, proprio a partire dalla esperienza di una società invivibile. Ad esempio, sulla verità: «Finché l’“apparenza” non viene messa a confronto con la realtà, non sembra un’apparenza, finché la “vita nella menzogna” non viene messa a confronto con la “vita nella verità”, manca un punto di riferimento che ne riveli la falsità. Ma appena di fronte all’apparenza si presenta un’alternativa, necessariamente la mette in discussione in quello che è, nella sua essenza e integralità. In genere non conta quanto è grande lo spazio che l’alternativa occupa; la sua forza non sta nel suo lato “fisico”, ma nella luce che getta sui pilastri del sistema e con cui illumina le sue traballanti fondamenta. Nel sistema post-totalitario, quindi, la “vita nella verità” non ha solo una dimensione esistenziale (restituisce l’uomo a se stesso), noetica (rivela la realtà com’è) e morale (è un esempio), ma ha anche una dimensione politica» (V. Havel, Il potere dei senza potere, ed. CSEO, Bologna 1979, pp. 28-29). Sulla legge naturale: «La critica mossa dai dissidenti al potere comunista s’identifica anzitutto con la riscoperta della questione del diritto naturale e della natura umana» (V. Belohradsky, Il mondo della vita: un problema politico. L’eredità europea nel dissenso e in Charta '77, Jaca Book, Milano 1981, p. 16).

[10] Si veda ad esempio anche il richiamo contenuto nel discorso di Benedetto XVI all’Università di Pavia (22.4.2007).

[11] Sul tema delle condizioni culturali della “democrazia” già J. Maritain aveva compiuto, a suo tempo, un’approfondita riflessione in numerose delle sue opere. Il tema è ritornato a farsi particolarmente presente, in anni recenti, nel Magistero con la riproposizione vigorosa della dottrina sociale della Chiesa da parte di Giovanni Paolo II (cfr. ad es. Centesimus annus, n. 46).

[12] Si ripresenta qui la distinzione tomistica tra revelatum per se e revelatum per accidens (cfr. ad es. III Sententiarum, d. 24, q. 1, a. 2b, co) ripresa anche dalla costituzione Dei filius del Vaticano I.

[13] «Una delle funzioni della fede, e non tra le più irrilevanti, è quella di offrire un risanamento alla ragione come ragione, di non usarle violenza, di non rimanerle estranea, ma di ricondurla appunto nuovamente a se stessa» (J. Ratzinger, Fede, Verità, Tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo, Cantagalli, Siena 2003, p. 142). Ho discusso questa affermazione con alcune delle sue conseguenze nel mio articolo “La fede e il risanamento della ragione come ragione”, Divus Thomas, vol. 40 (2005), p. 155-178.

[14] Mi pare sia questo il senso dell’affermazione dell’allora card. Ratzinger riportata per esteso nella nota precedente. Vorrei aggiungere che «è bene tenere presente che questo duplice modo di procedere, che considera un procedimento interno e uno esterno ad un certo ambito cognitivo (fede/ragione) e disciplinare (teologia/filosofia-scienza), non è esclusivo del rapporto fede/ragione, teologia/filosofia, quasi fosse una sorta di scappatoia ad hocper inventare una soluzione artificiosa ad un problema impossibile, ma è un metodo del tutto normale anche nell’ambito scientifico. Nell’antichità Archimede testimonia come, attraverso esperimenti di meccanica (cioè “esterni” all’ambito della matematica che non è sperimentale ma logico-formale) fosse riuscito ad intuire alcune proprietà geometriche dei corpi, che poi avrebbe dimostrato con il metodo deduttivo proprio della geometria (cioè con un procedimento “interno” a quella disciplina). Molto più tardi Newton giunse ad inventare il calcolo integrale (“interno” alla matematica) in quanto gli era “suggerito” come necessario per risolvere le equazioni del moto dei pianeti (problema di astronomia, “esterno” alla matematica). La stessa teoria degli insiemi di Cantor rappresenta una sorta di importazione, entro la matematica, di una nozione – quella di “insieme” – che ha un carattere ontologico ben più ampio di quella di numero» (ivi, p. 164.).

[15] Forse questa era la prospettiva entro la quale una problematica simile si propose nel secolo scorso al tempo in cui si dibatteva sulla possibilità e sull’importanza di quella che allora veniva chiamata “filosofia cristiana”. La differenza principale tra quell’epoca e i nostri giorni sembra risiedere almeno in due aspetti: l’uno sta nel fatto che oggi alcuni fondamenti si presentano come indispensabili a garantire la stessa vivibilità della società, e l’altro nel fatto che alcune problematiche filosofiche fondazionali stanno emergendo, più che nell’ambito della filosofia, in quello delle discipline scientifiche un tempo considerate “dure” e refrattarie ad ogni problematica di tipo metafisico, ma ora non più tali.

[16] J. Ratzinger, Fede, Verità, Tolleranza, cit., p. 201.

[17] Fides et ratio, n. 47.

[18] J. Ratzinger, Fede, Verità, Tolleranza, cit., p. 75. Per inciso, vale la pena aggiungere che una conseguenza del relativismo filosofico è anche quel «relativismo religioso che porta a ritenere che “una religione vale l’altra”» (Redemptoris missio, n. 36; Dominus Iesus, n. 22). Sulla questione del relativismo il Magistero di Giovanni Paolo II si è soffermato in un centinaio di diverse occasioni. Basti citare per tutte: Pastores gregis, n. 68; Ecclesia in America, n. 53; Fides et ratio, nn. 5 e 80 e specialmente Ecclesia in Europa, nn. 10, 55 e 76.

[19] Come chiarisce R.M. Pizzorni, «si tratta di un “minimum etico” condiviso dall’intero corpo sociale; ma così si ha un diritto delle regole, e un diritto dei valori, che può definirsi diritto debole, da alcuni ritenuto l’unico possibile nelle società dalle molte etiche, proprio perché non farebbe scelte valoriali che si basano sulla “legge naturale” scritta nella natura dell’uomo e delle cose. Ma così le norme delle varie convenzioni non sono compiutamente giuridiche, ma piuttosto dichiarazioni di buone intenzioni» (R.M. Pizzorni, Diritto, morale, religione. Il fondamento etico-religioso del diritto secondo San Tommaso d’Aquino, Urbaniana University Press, Città del Vaticano - Roma 2001, p. 301). E già J. Maritain – che pure guardava con speranza a questa via di convergenza pratica che partiva da un accordo minimo tra i popoli – osservava, all’inizio degli anni cinquanta del XX secolo, che «questo è senza dubbio molto poco, è l’ultimo rifugio dell’accordo intellettuale fra Uomini» (J. Maritain, L’uomo e lo stato, Vita e pensiero, Milano 1981, p. 91).

[20] Cfr. Benedetto XVI, “Messaggio per la giornata mondiale della pace. 1 gennaio 2007”, dato l’8 dicembre 2006. Inoltre un documento del Pontificio consiglio per i testi legislativi, così si esprime: «Si potrebbe dire che l’intero Magistero sociale della Chiesa nel XX secolo è stato guidato soprattutto dalla necessità di difendere le coscienze dei cristiani e dell’intera umanità contro due grandi utopie ideologiche diventate anche sistemi politici su scala mondiale: l’utopia totalitaria della giustizia senza libertà e l’utopia libertaria della libertà senza verità. Ha detto, infatti, il Papa: “Totalitarismi di opposto segno e democrazie malate hanno sconvolto la storia del nostro secolo” (Giovanni Paolo II, discorso al mondo della cultura nell’Università di Vilnius, 5 settembre 1993). La prima utopia – e con essa i sistemi politici che in varie forme l’avevano incarnata in Europa – è ormai in via di declino e di estinzione, ma non senza aver lasciato dietro di sé un immenso ammasso di rovine spirituali e sociali. La seconda utopia, invece, quella della libertà senza verità, è purtroppo in fase di crescente espansione. Per essa, maturata nell’habitat filosofico dell’illuminismo e del relativismo agnostico, non è la verità oggettiva che assicura la legalità morale e la razionalità giuridica della norma o delle esperienze biomediche, ma soltanto la verità relativa o convenzionale, frutto pragmatico del compromesso statistico o politico, o addirittura del puro interesse economico» (Pontificio consiglio per i testi legislativi, L'umanità è al bivio, 15.11.2006, §III).

[21] Rimane esemplare il testo del cap. 3 della costituzione dogmatica Dei Filius del Concilio Vaticano I già citata. Si tratta di un tema che è tuttora fondamentale (basti ricordare la già menzionata enciclica Fides et ratio di Giovanni Paolo II) e preliminare anche ad ogni discorso sulla scienza.

[22] Anche se con il Vaticano II, nella Gaudium et spes, emergono temi più ampi in ordine alla questione dell’autonomia relativa delle realtà terrene e quindi delle scienze e anche alle grandi questioni etiche e sociali legate alla scienza.

[23] Nel seguito farò liberamente riferimento anche al capitolo intitolato La sfida della verità nel mio studio L’uomo e la scienza nel magistero di Giovanni Paolo II, Piemme, Casale Monferrato, 1987, rielaborato anche nel successivo Le scienze e la pienezza della razionalità, Cantagalli, Siena 2003.

[24] «La trasformazione del mondo a livello tecnico è apparsa a molti come il senso e lo scopo della scienza. Nel frattempo è accaduto che il progredire della civiltà non sempre segna il miglioramento delle condizioni di vita. Vi sono conseguenze involontarie ed impreviste, che possono diventare pericolose e nocive. Io richiamo soltanto il problema ecologico, sorto in seguito al progredire dell’industrializzazione tecnico-scientifica. Nascono così seri dubbi sulla capacità del progresso, nel suo insieme, di servire l’uomo. Tali dubbi si ripercuotono sulla scienza, intesa in senso tecnico. Il suo senso, il suo obiettivo, il suo significato umano vengono messi in dubbio» (n. 3).

[25] In positivo si fa anche un accenno ad modello “organico” di unità del sapere e ad una razionalità aperta quale era quella medioevale ai tempi di sant’Alberto Magno e di san Tommaso d’Aquino: «La scienza deve essere aperta, anzi anche multiforme, senza che perciò si debba temere la perdita di un orientamento unitario. Questo è dato dal trinomio della ragione personale, della libertà e della verità, in cui la molteplicità delle attuazioni concrete viene fondata e confermata. Non esito affatto a collocare anche la scienza della fede nell’orizzonte di una razionalità così intesa. La Chiesa auspica una ricerca teologica autonoma, che non si identifica col Magistero ecclesiastico, ma che si sa impegnata di fronte ad esso nel comune servizio alla verità della fede e al popolo di Dio» (n. 5).

[26] Giovanni Paolo II, “Discorso di in occasione del Giubileo scienziati” (25.5.2000). Anche Fides et ratio, n. 106 fa intravedere come il problema dei fondamenti costituisca un punto di raccordo vero e proprio con più profonde questioni filosofiche e teologiche che hanno piena dignità razionale e non possono essere liquidate come psicologiche o irrazionali.

[27] Due termini che rievocano i teoremi di Gödel.

[28] Basti ricordare per tutti i titoli tra i più celebri di questi autori quali, K.R. Popper, Logica della scoperta scientifica, Einaudi, Torino 1970; T.S. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Torino 1969; P.K. Feyerabend, Contro il metodo, Feltrinelli, Milano 1990.

[29] Cfr. K. Gödel, “Proposizioni formalmente indecidibili dei Principia mathematica e sistemi affini I” (1931), in K. Gödel, Opere, vol. 1 (1929-1936), Bollati Boringhieri, Torino 1999, pp. 111-145.

[30] Si può vedere ad esempio il sito Web www.formalontology.it.

[31] Per una panoramica e una bibliografia su queste problematiche si possono vedere: F. Bertelè, A. Olmi, A. Salucci e A. Strumia, Scienza, analogia, astrazione. Tommaso d’Aquino e le scienze della complessità, Il Poligrafo, Padova 1999; G. Basti, Filosofia della natura e della scienza, Lateran Unviersity Press, Roma-Città del Vaticano 2002; G. Tanzella-Nitti e A. Strumia (a cura di), Dizionario Interdisciplinare di Scienza e Fede, Città nuova e Urbaniana University Press, Roma 2002. Una breve introduzione si trova in A. Strumia, Le scienze e la pienezza della razionalità, Cantagalli, Siena 2003. Sviluppi più recenti si trovano in A. Strumia (a cura di),Fondamenti logici e ontologici delle scienze. Analogia e casualità, Cantagalli, Siena 2006 e in A. Strumia (a cura di), Il problema dei fondamenti da Aristotele a Tommaso d'Aquino all'ontologia formale, Cantagalli, Siena 2007.

[32] Su questi argomenti, qualora si intenda entrare in maggiori dettagli tecnici che qui non sarebbe possibile esporre, si possono vedere le voci del Dizionario Interdisciplinare di Scienza e Fede, già citato. In particolare:J. Polkinghorne, voce “Riduzionismo”, pp. 1231-1236; G. del Re,voce “Complessità”, pp. 259-265; E. Sarti,voce “Informazione”, pp. 740-754; G. Basti, voce “Mente-corpo, rapporto”, pp. 920-939; e la mia voce “Materia”, pp. 849-866. Alcune di queste voci sono disponibili anche on-line nel Portale di “Documentazione Interdisicplinare di Scienza e Fede” (www.disf.org).

[33] «La rivoluzione cantoriana non trasforma soltanto alcuni settori della matematica, ma cambia il suo stesso oggetto. Per Cantor, che riprende un’idea di Bolzano, il vero concetto-base della matematica non è il numero, ma l’insieme, l’unico ente capace di tradurre integralmente, in forma scientificamente utilizzabile, la nozione di molteplicità», G. Binotti, voce “Cantor, Georg Ferdinand”, Dizionario…, cit., p. 1637.

[34] Cfr. K. Gödel, Opere, vol. 2, Bollati Boringhieri, Torino 2002, p. 38.

[35] Cfr. ad es. il mio studio “Dalla scienza matematizzata all'ontologia formale. Annotazioni su analogia e causalità”, in A. strumia (a cura di), I fondamenti logici e ontologici delle scienze. Analogia e causalità, Cantagalli, Siena 2006, pp. 10-48.

[36] Una serie di studi recenti sull’analogia e la sua modellizzazione è presentato in G. Basti e C. Testi (edd.), Analogia e autoreferenza, Marietti 1820, Genova 2004, frutto del lavoro di alcuni studiosi poi confluiti nel gruppo di ricerca sui “Fondamenti logici e ontologici delle scienze”, che ha operato presso l’Istituto Veritatis Splendor di Bologna, in collaborazione con l’Istituto Filosofico di Studi Tomistici di Modena (gruppo, diretto da G. Tanzella-Nitti e da me, grazie a un cofinanaziamento del Servizio Nazionale per il Progetto Culturale della CEI e dello stesso Istituto Veritatis Splendor).

[37] K. Gödel, “Alcuni teoremi basilari sui fondamenti della matematica e loro implicazioni filosofiche”, in Opere, vol.3, Bollati Boringhieri, Torino 2006, pp. 268-269.

[38] In questa parte farò ampliamento riferimento al mio già citato articolo “La fede e il risanamento della ragione come ragione”.

[39] Cfr. A. Strumia, “Libere riflessioni sulla revisione del metodo nella teologia e nelle scienze, a partire da uno scritto del Card. Giacomo Biffi”, Divus Thomas 38, (2004), pp. 137-155.

[40] Non intendo, certamente, qui, riaprire la questione della filosofia cristiana che in quegli anni fu all’origine di tante discussioni, a cominciare da quella sul senso della stessa denominazione di “cristiana” attribuita alla filosofia, ma semplicemente rilevare una qualche consonanza con il problema oggi in questione.

[41] A.D. Sertillanges, Il cristianesimo e le filosofie, Morcelliana, Brescia 1947, vol. I, cap. I, §II.

[42] Ivi, Prefazione.

[43] Brani tratti dall’articolo di H.U. von Balthasar, Il mio pensiero, testo pubblicato sul Il Sabato, 2.7.1988.

[44] Benedetto XVI, “Discorso con le autorità e con il corpo diplomatico” (7.9.2007).